mercoledì, agosto 20, 2008

La Montagna Sacra

"Se non sai renderti conto che dentro l'uomo c'è qualcosa che vuole accettare la sfida di questa montagna e che lo spinge ad affrontarla; che la lotta è la lotta stessa della vita per salire in alto, sempre più in alto, allora non sei in grado di comprendere perché noi andiamo a scalare. Ciò che riceviamo da questa avventura è gioia allo stato puro. E se tu poni la domanda, vuol dire che non puoi capire la risposta."

E' nato Kailash, un blog a me molto caro, che ha l'ambizione di ripercorrere con immagini e scrittura viaggi ai confini del mondo conosciuto, per permettere finalmente anche a chi è rimasto a casa, l'impagabile privilegio di assistere all'ascesa. Buon viaggio...

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giovedì, agosto 07, 2008

Posta celere

Tempo fa aspettavo un pacco. Mi avevano detto che me lo avrebbero mandato, un regalo, un paio di libri. Ma la certezza del suo arrivo non era tanto questa - poteva essere uno scherzo, una di quelle cose che si dicono tanto per dire..- quanto la telefonata di un corriere, che in un italiano strascicato aveva ripetuto più volte "come faccio ad arrivare a casa tua che nella carta non esiste?". Casa mia non esiste...me lo sono sentito ripetere più volte da altri postini come lui, troppo forestieri o forse solo troppo pigri per prendersi la briga di chiedere in giro. Come se per il solo fatto di abitare in piena campagna, in una stradina sterrata senza semafori e linee di demarcazione, sia una scusa sufficiente per spazzarmi via dall'elenco telefonico. Mi prese un'impazienza improvvisa quel giorno, un bisogno urgente di ricevere quel pacco che all'improvviso si materializzava nel mio immaginario come qualcosa di vivo e reale, in attesa di giungere finalmente a casa. Fu solo quando attaccai di malomodo la cornetta del telefono che mi resi conto di non aver dato al corriere nessuna indicazione, niente di niente, neanche il tempo di chiedergli dove recuperare il mio pacco se alla fine si fosse arreso di cercare in aperta campagna una casa senza campanello e senza nome. Panico. So di avere un dono in viaggio per me, dal contenuto imprecisato - libri? lettere? - e lo vedo allontanarsi poco a poco nella nebbia fitta delle missive perdute. Cosa succede quando un pacco non trova il suo destinatario? Torna indientro al mittente, continua a vagare per l'Italia, sballonzolato tra treni troppo lenti e mani appiccicose, finchè qualcuno non si stanca di timbrare e bollare e lui diventa improvvisamente.....orfano? Sono passati tre giorni da quella telefonata, tre interminabili giorni di trepida attesa, di sbirciate al portone, di orecchie tese, finchè non è arrivato stropicciato e lucido, oscillando come una foglia tra le mani scure di mio padre.E' stato proprio in quel momento, quando di colpo mi si è materializzato davanti, piccolo e malconcio, che mi sono resa conto che non era lui che aspettavo e forse neanche il suo contenuto. Quel pacco portava con sè l'aspettativa di un impercettibile cambiamento nello scorrere lento e regolare delle mie giornate. Alla fine non importava cosa avrei trovato dentro, passiamo la vita ad ordinare certezze come fili di panni, come filari di pini, perchè il solo fatto di tendere quei fili ci rende più sopportabile l'incertezza dell'orizzonte. E non ci rendiamo conto che l'unica cosa che ci mantiene vivi, giovani, forti, sono i piccoli eventi quotidiani che ci fanno deragliare dal binario preciso in cui abbiamo incamminato la nostra esistenza. Ecco perchè mi piaceva cosi tanto ricevere lettere. Trovarle infilate nella buca mi dava l'impressione che non tutto dipendeva da me, che non tutto era già scritto e deciso. Questo mi ha fatto venire in mente quel piccolo pacco ocra che ora ho davanti agli occhi, senza nessuna fretta di aprire.

venerdì, luglio 25, 2008

Gastroturbamenti

Secondo le ultime statistiche sono dodici milioni gli italiani affetti da gastrite. Quali sono le cause? Se si esclude la recentissima scoperta del minuscolo e insidiosissimo batterio dell' Helicobacter pyilori (ormai presente nella maggior parte dei casi), il resto dei motivi possono essere in larga parte ricondotti allo.....stress. Leggo: "Lo stress può provocare un’eccessiva secrezione di acidi da parte dello stomaco, e quindi anch'esso rientra tra le cause che provocano la gastrite". Mi ci vedo, proprio qui, ai confini di una eccessiva secrezione di acidi, colpevole di una settimana piegata in due a guardare il mondo da sotto in su. Mai succeso prima, forse non è neanche un caso che la botta sia arrivata allo scadere dei fatidici trenta, gli anni, si sa, chiedono sempre il conto per poter passare...Ho avuto tempo per riflettere in quella infernale settimana, mentre la mente vagava alla disperata ricerca di quel punto esatto un pò più in su dell'ombelico, alla ricerca dell'origine del dolore. Dicono che utilizziamo soltanto una piccola percentuale del nostro cervello, io ho provato - senza successo - di svegliare il restante 90% nella speranza che ricordasse come si fa ad annullare il dolore, semplicemente annullando il pensiero del dolore. In fondo è ironico, siamo esseri intelligenti ma di fronte a condizioni di eccessivo stress è sempre il nostro corpo, quasi mai la mente, a imporre un cambio di marcia. O di direzione.
Viviamo circondati di sostanze immateriali che ci sembrano fondamentali - questioni di lavoro, rapporti tra persone, legami di dipendenza - e non siamo capaci di un atto tanto banale come controllare il nostro dolore. Che esseri stupidi che siamo in fondo, nel senso etimologico del termine ereditato dal latino: stupidus, derivazione di stupere (stupire). Presi dunque dallo stupore, attoniti, sbalorditi da questo nostro motore interiore che ci fa affliggere per le cose più banali del mondo: il lavoro, la famiglia, le preoccupazioni quotidiane. Cose fondamentali per il nostro benessere e che per questo dovremmo prendere più alla leggera. Per viverle bene, fino in fondo, sapendo ridere di noi stessi per la natura stessa della nostra caducità. Non possiamo controllare il nostro corpo, come possiamo pensare di influire anche solo minimamente sul corso dell'esistenza (soprattutto quando include l'esistenza degli altri)? Un lungo respiro, due pasticche chimicissime e la gastrite è scomparsa, sono di nuovo in forma. Di lei è rimasta però l'ombra che lasciano le cose incompiute: la mia purificazione interiore inizia proprio là dove l'avevo lasciata. Da domani sono in ferie e mi aspetta un lungo, solitario, viaggio in treno. Con Ben Harper nelle orecchie, che ieri sera all'arena di Villafranca di Verona mi ha di nuovo regalato il momento magico vissuto due anni fa - non sospetta neanche, lui, quanto sia stato importate. Non si possono vivere gli stessi istanti due volte, ma le suggestioni che lasciano sono come scie di ricordi perduti. Quando li ritrovi è come ritrovare una parte di te che pensavi ormai estinta. Invece non si perde mai niente, è sempre tutto lì, dentro di noi. Se non ci facciamo inquinare dall'eccesso di succhi gastrici prodotti dal nostro cervello, ci ricorderemo che in fondo possiamo cambiare il mondo, soltanto con l'aiuto delle nostre due mani.

lunedì, luglio 21, 2008

Dice il mio oroscopo....

"la fantasia, che vi porta lontano da voi, quasi fuori dal corpo, non è fuga malinconica dal mondo, ma stile personalissimo di attraversarlo."

Posso tranquillizzarmi, almeno per il mese di agosto.,..

giovedì, luglio 17, 2008

Pasta, pizza e...?

"Capitale sociale, ambiente, qualità della vita, senso della bellezza, storia. Tutto questo compone una miscela di fattori materiali e immateriali in grado di creare un modello di sviluppo specifico, con una dimensione di ricchezza che non si limita alle cifre puramente economiche" (Paolo Bricco, Più qualità nella crescita", Sole24Ore 17/06/2008)

Per Emerte Realacci, recensito da Paolo Bricco, la qualità è un valore che le statistiche internazionali sottovalutano e che invece costituirebbe quel plus che ci permetterebbe di conquistare nuove fette di mercato, a discapito delle più pessimistiche previsioni di una crescita allo 0,4% e statistiche mondiali che ci vogliono impietosamente sempre tra gli ultimi della classe. Ma in fondo, basterà mettere un marchio Made In Italy - nuovo di zecca, luccicante e innovativo - appiccicato sopra la solita "pasta piazza e mandolino", per vederci di colpo schizzare in alto nelle classifiche che tengono conto della qualità? Ho come l'impressione che del marchio abbiamo già abusato, forse ci vuole una cultura diversa anche nel saper fare... e che questo non possa prescindere dall'innovazione, prima di tutto innovando nel modo in cui ci vedono gli altri, fuori da questo caro, vecchio, sclerotico stivale. Del resto conta molto "come ci vedono gli altri", molto di più di come siamo realmente. In fondo è proprio questo che voleva dire Realacci ma, volendo banalizzare, le conclusioni a cui arriva sono per certi versi italianissime: certo abbiamo i nostri limiti (il Sud?) ma per la maggior parte delle cose sono loro ad aver sbagliato indicatori, per questo dalle statistiche risultiamo appiattiti...manca la dimensione qualitative della nostra bravura! Invece io credo che al di là del contenuto (...senso della bellezza, storia...) è la forma in cui viene presentato a fare la differenza, almeno in un mondo che vive di "breve periodo". E ainoi, nonostante il nostro didentro amalgami egregiamente le vicissitudini più o meno gloriose di grandi uomini, riusciamo sempre a presentarci all'esterno con un certo fragoroso baccano. Forse è quel nostro assiduo gesticolare che alla lunga ci frega, gli altri restano a guardarci a bocca aperta, ma non sai mai fino in fondo quanto riescano a capire....

mercoledì, luglio 16, 2008

Piccoli campioni d'Europa

Da Bruxelles arriva un importante riconoscimento del ruolo attivo delle banche di credito cooperativo nel favorire l'inclusione finanziaria in Europa, grazie alla solida relazione con i loro soci, clienti e comunità locali. Questa certezza è uno dei segnali più significativi emersi dal rapporto finale della Commissione Europea sulla “fornitura di servizi finanziari e prevenzione dell’esclusione finanziaria” presentato a maggio a Bruxelles. Nel rapporto le banche di credito cooperativo sono definite “organizzazioni commerciali con orientamento sociale”. In effetti, la struttura societaria delle banche di credito cooperativo definisce una mission orientata alla massimizzazione del valore per i propri soci, con numerosi esempi di iniziative attivate per contrastare l’esclusione sociale: dallo sviluppo di nuovi prodotti e servizi alla creazione di partnership per diffondere l’educazione finanziaria tra i soci. Inoltre, grazie all’appartenenza alla solida struttura a network decentralizzata, le banche di credito cooperativo riescono ad offrire servizi anche nelle aree più remote, permettendo una copertura bancaria estesa a tutti, anche al di fuori delle zone urbane. A livello Europeo le banche di credito cooperativo sono rappresentante dall’EACB (European Association of Co-operative banks). Fondata nel 1970, l’organizzazione promuove la cooperazione tra i soci e rappresenta il settore sia di fronte alle Istituzioni Comunitarie che presso la Banca Centrale Europea. Le banche di credito cooperativo a livello europeo rappresentano 47 milioni di soci, danno lavoro a 730.000 persone e hanno in media una quota di mercato del 20%.
La presa di coscienza della Commissione Europea è tanto più significativa se si considera che il modello della cooperazione di credito è stato a lungo assente dalla letteratura scientifica in materia: soltanto l'1% della ricerca economica in Europa è dedicata alle banche cooperative, nonostante rivestano un ruolo chiave nei sistemi bancari e finanziari europei.
Al proposito, la EACB ha recentemente creato un think thank europeo sul credito cooperativo, con sede a Bruxelles, che avrà lo scopo di raccogliere il materiale esistente sul tema e distribuirlo al più vasto pubblico. Nel medio periodo, l'obiettivo sarà anche quello di produrre nuove ricerche che vadano a colmare le lacune oggi esistenti e forniscano degli input rigorosi alle Istituzioni Europee e alle Organizzazioni Internazionali in sede di produzione normativa.

lunedì, luglio 14, 2008

Violazione dell'integrità, l'amore

Ho cercato a lungo una definizione consona, tra le pieghe dei pensieri altrui, le parole di qualche canzone illuminata, la penna audace di un temerario scrittore. E poi, rileggendo un po' stranita un po' nauseata le frasi sottolineate a matita nei libri della mia adolescenza, mi sono arresa all'idea che una definizione non esista se non nel momento storico in cui la vivi, una storia d'amore.
Poi l'altro giorno, nei miei ormai routinari passaggi Brescia-Milano e viceversa, mi sono imbattuta in una copia di un giornale già letto, abbandonata tra i sedili di un vuotissimo Eurostar. L'ho sfogliata lentamente, più per noia che per reale vivacità letteraria e mi sono imbattuta in qualcosa di illuminante, una di quelle cose che prima di averle incontrate non c'erano in te e quindi, in fondo, porti a casa qualcosa di nuovo.
Era Umberto Galimberti, che rispondeva al solito lettore avanguardista, che disilluso e civilizzato diceva di non credere più alla sostanza spirituale di "innamoramento, amore, matrimonio e le varie forme di consolidamento dei rapporti di coppia". E Galimberti, con poche righe audaci, sentite cosa gli risponde: " Una sorta di rottura da sé perché l'altro lo attraversi. Questo è l'amore. Non una ricerca di sé ma dell'altro, che sia in grado, naturalmente a nostro rischio, di spezzare la nostra autonomia, di alterare la nostra identità, squilibrandola nelle sue difese. L'altro infatti, se non passa vicino a me come noi passiamo vicino ai muri,mi altera. e senza questa alterazione che mi spezza, mi incrina, mi espone, come posso essere attraversato dall'altro, che è poi il solo che possa consentirmi di essere, oltre a me stesso, altro da me? L'amore non è la ricerca della propria segreta soggettività, che non si riesce a reperire nel vivere sociale. Amore è piuttosto l'espropriazione della soggettività...per questo amore non è una cosa tranquilla, non è delicatezza, confidenza, conforto. Amore non è comprensione, condivisione, gentilezza, rispetto, passione che tocca l'anima o che contamina i corpi. Amore non è silenzio, domanda, risposta, suggello di fede eterna, lacerazione di intenzioni un tempo congiunte, tradimento di promesse mancate, naufragio di sogni svelati. Amore è violazione dell'integrità degli individui. La sola cosa capace di aprirci all'altro."

lunedì, giugno 23, 2008

Un racconto detto da un idiota, la vita...

All'inizio sembra Dilsey - la governante nera dei Compson, sudisti, in un'America dove ha ancora senso la distinzione tra nord e sud - sembra lei il punto di riferimento di questa famiglia perduta, il filo spesso che tesse tutte le loro storie (dei figli, dei padri) cercando di tenerle unite. Sembra lei, la roccia che non crolla. L'unica che salvando se stessa salva la speranza che nella vita esista ancora un senso. Ma proprio alla fine Dilsey dimentica, sceglie di dimenticare, negando di riconoscere tra le pieghe di una fotografia sgualcita, lo sguardo bellissimo e dannato della sua Caddy. Solo in quel momento l'ultima trama che teneva unita la famiglia Compson si spezza, solo allora Caddy è perduta per sempre.
Mi sono chiesta, allora non c'è salvezza? Anche Faulkner - come il dannato Macbeth shakespeariano citato nel titolo - crede davvero che la vita sia un racconto di un idiota "pieno di urlo e furore, che non significa nulla"? E invece no, esiste un punto di equilibrio, il meno evidente, il meno salvifico: è Benji, l'idiota, il figlio sordomuto, vergogna e pentimento della madre ipocondriaca dei Compson. E' lui l'acqua che redime, lui con il suo ossessivo mugolio, lui che non ha coscienza di esistere eppure trova la felicità in piccolissime certezze: la fiamma del fuoco, lo stelo di un fiore, il campo venduto per Harvard e Quentin, tutto ciò che è rotondo, la ciabatta consunta che odora di Caddy. Lui che non vive eppure è il più vivo di tutti, l'unico in grado di sopravvivere alla perdizione perché non sa di essere, in quel suo tempo che è solo lunghissimo presente. Benji racchiude il dramma di una famiglia americana di inizio '900, che come tutte le famiglie ai margini di quel terribile 1929, perse molto più che benessere economico: la fine del sogno americano del "tutto possibile", l'incredulo stupore di un impensabile fallimento.
Quindi l'Uomo, in Faulkner, si salva o si perde? In fondo l'autore stesso uscirà dalla vita distrutto dall'alcool, in cura da uno psichiatra, in preda ad attacchi di amnesia. Il messaggio è ambiguo ma forse....L'Urlo e il Furore è un libro complesso, sinfonico più che narrato, nell'intreccio musicale di quei flussi di coscienza ripresi dall'amico Joyce. Un libro che parla prima di tutto del suo autore, un uomo che come tanti ha avuto in dono una capacità durissima: la dannazione di chiedersi sempre il perché delle cose e saper leggere nell'esistenza tutte le risposte - perché se non per questo finiscono tutti cosi, schiacciati da se stessi?.
Se Faulkner, che ha dedicato tutta la sua vita a ricercare il senso della vita, riesce ad affermare che "lo scrittore deve avere fede nel destino dell'umanità", deve aver trovato, nella sua ricerca, le giuste risposte. In fondo, della vita è proprio questo che conta: fino in fondo, averla vissuta.

giovedì, giugno 19, 2008

La vetta vista da qui

La salita del Denali parte da Talkeetna, cui si arriva in macchina da Anchorage. Qui sulle targhe delle auto c’e’ scritto: Alaska –The Last Frontier- ed e’ proprio questa l’impressione che si ha giunti a Talkeetna. I tre giorni che servono per arrivare al campo 3, ci fanno capire subito che tipo di esperienza abbiamo iniziato, che tipo di viaggio, anche mentale, ci troveremo ad affrontare per i prossimo 14 giorni. Tirare con gli sci una slitta pesantissima su sterminate distese di ghiaccio, per poi arrivare, dopo 4 o 5 ore, in prossimita’ della zona dove scavare una buca nella neve, per piantare la tenda protetta dal vento gelido della notte artica, e poi iniziare a sciogliere neve per procurarsi acqua da bere e per cucinare, ti fa capire subito quanto si e’ lontano dalle abitudini di casa, dove basta aprire un rubinetto per avere tutta l’acqua che si vuole, calda e fredda. I 4.400 m del campo 4, sono il punto in cui ci si ferma piu’ a lungo, tanto che ad un certo punto, questo luogo sembra trasformarsi nella nostra “casa”, soprattutto se, come nel nostro caso, il brutto tempo e la neve costringono a passare fermi in questo punto cinque giorni in attesa che il tempo migliori. Con il passare dei giorni si inizia a fare amicizia con le altre persone che, come noi, sono ferme qui in attesa di un miglioramento del tempo, persone che hanno condiviso con noi questa prima parte del percorso, e che condividono con noi il sogno di raggiungere la vetta. Ognuno segue la propria strada, la propria strategia di salita, ma per tutti l’incognita principale e’ il tempo, cosi’, quando ci si incontra nel campo, l’argomento di discussione è sempre lo stesso: quando migliorerà il tempo? C’e’ chi, in contatto satellitare con chissa’ chi, si fa mandare previsioni meteorologiche che immancabilmente vengono smentite, c’è chi si affida a strane conoscenze scientifiche acquisite sui libri, ma l’unica cosa certa e’ che in questo posto, prevedere il tempo che fara’ e’ impossibile. L’unico modo e’ alzarsi la mattina, uscire con la testa dalla tenda e sperare che se il tempo e’ bello rimanga tale, se invece e’ brutto migliori, permettendoti di fare quello per cui sei venuto fino a qui. Dopo 5 giorni di attesa, decidiamo che è venuto il nostro momento. I giorni a nostra disposizione stavano per finire, ma soprattutto lo stare fermi, l’impossibilità di agire e la vita entro le ridotte dimensioni di una tenda di 3 m X 2 m, stavano pesando piu’ che sul nostro fisico, sulla nostra mente. possiamo affrontare la lunga cresta di roccia e neve che porta al campo 5 (High Camp), posto proprio sotto la cima del Denali, a 5.300 m. Montata la tenda il tempo sembra migliorare, e progressivamente questo posto, da cupo e tetro come appare avvolto dalle nuvole, si rivela come una sorta di paradiso, quando le nuvole rimangono sotto di te a formare un tappeto soffice, e lo sguardo puo’ perdersi nell’orizzonte infinito che l’alta quota puo’ permetterti di ammirare. A questa altezza il respiro rimane sempre affannoso, ed ogni movimento deve essere lento e ragionato. Se provi anche solo un attimo a mantenere il ritmo frenetico che si ha a casa, la testa inizia a pulsare, riportandoti ad una lentezza che ti permette di contemplare la magnificenza di quanto ti sta attorno. Visto l’accenno di miglioramento del tempo, decidiamo che domani sara’ il nostro giorno per tentare di raggiungere la vetta, avremo solo quello a disposizione, e cercheremo di fare di tutto per vincere la nostra sfida. La notte al campo alto trascorre lenta, si dorme poco (un po’ per la quota ed un po’ perche’ a queste latitudini, in questo periodo, il sole non tramonta mai) e fa molto freddo, e quando decidiamo che e’ ora di fare colazione e poi partire, ci accorgiamo che l’interno della tenda e’ completamente rivestito di ghiaccio, come ghiaccio si e’ formato sulla parte esterna dei nostri sacchi a pelo. Usciti dalla tenda ci accorgiamo subito che la giornata non e’ delle migliori. Alcune nuvole si stanno addensando sulla cima, ed il vento inizia a rinforzare. quando sbuchiamo in prossimita’ del Denali Pass a 5.700 m, il vento e’ talmente forte che quasi non ci permette di rimanere in piedi, e si porta appresso anche un gelo che ti entra subito nelle ossa. Cerchiamo di procedere per vedere se la situazione accenna a migliorare, ma oltre al vento ed al freddo, dalle nuvole che progressivamente ci hanno circondato, inizia a nevicare. A questo punto basta uno sguardo tra di noi per prendere la decisione che non avremmo mai voluto prendere…: si torna indietro, il nostro tentativo di salire ai 6.194 m della vetta del Denali, si ferma a circa 5.700 m, ad un soffio dalla vetta. Mentre torniamo verso il campo alto, le condizioni peggiorano ulteriormente, la nevicata si fa piu’ intensa, e questo in parte ci rincuora sul fatto che la decisione presa sia stata qualla giusta. Questa volta ha vinto la Montagna, che si e’ presa anche la liberta’ di beffarci, dandoci, il giorno dopo la nostra partenza una giornata splendida di sole, senza vento ed ideale per salire sulla vetta, come poche se ne vedono da queste parti…...ma noi, ormai, stavamo gia scendendo, un po’ abbattuti, ma in fondo consapevoli di aver fatto una, per noi, grandissima esperienza, dove siamo usciti solo in parte sconfitti da una Montagna che si e’ rivelata essere al tempo stesso immensa e splendida, ma anche in certi casi terribile e temibile. Noi siamo in ogni caso orgogliosi di quanto abbiamo fatto, e se non possiamo certo consigliare questo tipo di viaggio ad altri, quello che possiamo proporre e’ di cercare dentro se stessi la propria “Last Frontier” come abbiamo fatto noi, e di impegnarsi per raggiungerla, per quanto possibile ed indipendentemente dalla componente avventurosa o estrema che questa richieda. Spesso è più vicino e raggiungibile di quanto immaginiamo.

Foto e testo: Ivan & Gigi - Denali National Park, maggio-giugno 2008 ©

martedì, maggio 27, 2008

Capitale giovane under 35

E' uscito il rapporto del Cerved sull' imprenditoria giovanile nell'industria. Non ho ben capito se si tratti di dati incoraggianti, ma una cosa pare tuttavia certa: nel sottobosco mediatico dei bamboccioni, raccomandati, sbandati e figli-di-papà emerge chiaro il segno di un'Italia under 35 che si vuole combattiva, pronta a lanciarsi - con più successo di quanto si pensi - nei mari gonfi dell'economia mondiale. Si sente molto - troppo - parlare di un PIL in frenata, di competizione cinese e smarrimento imprenditoriale. Ma di fatto poco o nulla si dice in Italia delle imprese create dai giovani. Eppure ci sono, sono in crescita costante, nel segno del made-in-Italy ma non solo: sono sempre di più i giovani imprenditori stranieri residenti nel nostro paese. Il Cerved in questo senso viene a colmare una lacuna, mostrando il lato buono del vecchio stivale. Quello che si rifiuta di pensare che un piccolo PIL equivalga solo ad enormi preoccupazioni. Quello che ci spinge ad abbassare lo sguardo, a guardare la realtà da vicino e convincerci che ovunque si lasci spazio a creatività e fiducia ci sono possibilità di crescita e futuro. Anche su barchette modeste, ma dall'alto potenziale di navigazione in alto mare. Lo dimostrano i dati, anche al Sud, dove nascono cronicamente poche imprese ma tra queste vi è un contributo dei giovani maggiore che nel resto d'Italia. E allora perché non accompagnarli questi giovani? Invece che con spintarelle e balzani sgravi fiscali basterebbero passetti semplici, quasi ovvi. Tipo maggiore accesso al credito, che permetta non solo un efficace start-up - sarebbe già molto...- ma anche un potenziamento del capitale quando arriva il momento di fare il salto, di dimensione e di qualità. Tipo l'offerta di strumenti effettivi che spingano ad investire nelle aziende più virtuose, non solo da parte delle banche (venture capital, business angels...già il fatto che siano in inglese disincentiva a partecipare?) . Sembra che le banche italiane in quanto a innovazione nel settore rimangano stitiche, ancora poco propense a credere nei giovani e nelle buone idee. Avessero avuto la stessa prudenza nell'avvicinarsi - e far avvicinare ...- ai fatidici strumenti di finanza creativa, pane quotidiano dei nostri giorni....ma questa è un'altra storia. O no?

Per approfondire: Cerved BI e Sole 24 Ore
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venerdì, maggio 23, 2008

Il cuore sul Denali

In passato hanno compiuto imprese scalando varie vette in tutto il mondo: Imsa Tse (Nepal) - 6.189 m, Elibrus (Caucaso Russo) - 5.642 m, Licancabur (Cile/Bolivia) - 5.920 m, Aconcagua (Argentina) - 6.961 m, Kilimangiaro (Tanzania) - 5.895 m.
Quest'anno hanno scelto il Mount McKinley in Alaska, conosciuto anche come Monte Denali alto 6.194 m. Il McKinley è la montagna più alta di tutto il continente nordamericano e, vista la vicinanza con il Polo Nord, è anche uno di luoghi più freddi al mondo, spazzata da venti gelidi che portano la temperatura anche a 35 gradi sotto zero. La fase di acclimatamento prevede numerose salite e ridiscese ai campi alti che si trovano a 5.200 metri. Da lì partiranno, l'ultimo giorno, per la vetta. La discesa sarà affrontata con gli sci. Questo permetterà loro di ridurre i tempi del ritorno alla base della montagna. Tutta l'impresa verrà affrontata in totale autonomia senza l'aiuto di guide o portatori nel pieno rispetto dell'ambiente.
A qualcuno potrà venire in mente chi sono questi pazzi e chi glielo fa fare di passare tre settimane delle loro ferie in uno dei posti più impervi del mondo....io mi sono fatta l'idea che non ci vuole coraggio ma un'immensa passione e che quando guarderanno giù, dopo aver patito e faticato per raggiungere l'ennesimo tetto del mondo, il loro sguardo si poserà lontano e il loro Io per un lunghissimo minuto si sentirà una piccola parte del tutto. E saranno forti e vivi, come non mai.
Potrei invidiarli, ma non lo faccio, perchè quella sensazione che non ho vissuto mi accompagnerà per i prossimi venti giorni, quando anche il mio cuore sarà lassù, con Ivan, sulla cima del Denali.

martedì, maggio 13, 2008

Honduras: ogni tanto se ne sente parlare...

"Chissà come si può fare per accendere un po’ di luce sulla lotta della magistratura dell’Honduras, da 35 giorni in sciopero della fame contro la corruzione nel paese centroamericano. Un paese periferico, completamente fuori dall’interesse dei media, lottando contro un fenomeno considerato normale, ineluttabile, al quale è meglio adeguarsi, "ma tu non tieni famiglia?"
Più di un mese fa hanno cominciato quattro giovani magistrati nel Palazzo legislativo di Tegucigalpa. Oggi hanno l’appoggio di migliaia di persone. Hanno chiesto che il procuratore generale, Leónidas Rosa, e il suo vice, Omar Cerna, fossero rimossi dal loro incarico. Sono i vertici di un potere giudiziario tutt’altro che indipendente e profondamente compenetrato con gli altri poteri, quello legislativo, quello esecutivo e con l’immanente potere economico, quello dei soldi, quello reale che non ha nulla a che vedere con la democrazia. Quei quattro giovani lottavano da anni per capire come si potesse fare giustizia se i vertici della giustizia erano conniventi con il crimine. Finiti tutti i sistemi legali, sentendosi pressocché sconfitti, restava la lotta, ma quella testimoniale dello sciopero della fame, l’ultima risorsa di chi ha capito che nessuno, neanche l’opinione pubblica in quel momento, vuole ascoltare..." (Gennaro Carotenuto, Gli straordinari giovani giudici dell'Honduras) Continua su Giornalismo Partecipativo

Segnalato da: Francesco

giovedì, maggio 08, 2008

Durango: cinema western e revoluciòn

Durango, capitale dell’omonimo stato a nord della Federazione Messicana, è una cittá pulita ed efficiente, lastricata di grandi opere e ambiziosi progetti, che il governo locale ci ha mostrato con orgoglio ripercorrendo con suoni, sapori e suggestioni, il passato glorioso del cinema western e della revolución. Proprio qui, piú di cento anni fa, venne alla luce Doroteo Arango Arambula, un semplice peon, figlio di braccianti da generazioni a servizio dei padroni. Un uomo umile, un analfabeta, che pure ebbe l’intuizione di stringere nelle sue mani le sorti della storia nazionale.
Era il 1910 e dalla sierra di Durango, Doroteo abbandonava per sempre la vecchia pelle, per diventare Pancho Villa, uno dei padri della rivoluzione messicana. L’uomo che insieme ad Emiliano Zapata, fu temuto dai governi non per la sua stazza o per la sua veloce carabina, ma per ciò che rappresentava: i rancheros, i peones, tutti i diseredati del Messico che con lui tornavano a credere in una ribellione possibile. Molte altre lotte sono passate da allora, mentre il Messico si guadagnava poco a poco uno dei posti d’onore tra i moderni paesi emergenti. Con un ritmo di crescita costante, un tasso di inflazione contenuto, accordi commerciali privilegiati e le immense risorse che riceve dai suoi emigrati, il paese oggi può giocare un ruolo di primo piano sulla scena internazionale. Eppure non tutti i nodi sono stati risolti, permangono ancora contraddizioni, discriminazini, forti ingiustizie sociali. La ricchezza, la forza produttiva ed il potere, continuano ad essere questione di pochi, grandi, padroni e anche qui, in questa terra feconda di petrolio, fagioli e mais, la grande finanza passa al di sopra delle teste della maggior parte della popolazione. Certo, le PMI messicane oggi corrono sull’onda di una congiuntura economica favorevole, ma senza possibilitá di accesso ad un credito onesto e lungimirante, sanno di non poter guardare con fiducia al futuro. Resta in sottofondo una sfumatura di diffidenza, la sensazione che finora lo Stato é stato molto presente, paradossalmente troppo presente, accompagnando con sussidi e donazioni i produttori e le casse rurali, distribuendo con mano generosa gli effimeri frutti del petrolio nazionale. Cosa succederá quando tanta abbondanza avrá fine? I campesinos e i rappresentanti indigeni che abbiamo incontrato non sembrano avere una risposta, concentrano in un sentimento di precarietá e dipendenza le loro reticenze, i loro timori. Eppure, mi chiedo cosa abbia spinto Pancho Villa - un contadino, uno che in fondo era nato nessuno - a lanciarsi nell’impresa di cambiare secoli di stratificazione sociale. Lo hanno descritto come un rivoluzionario con una mentalità da rapinatore di banche, un uomo che non sapeva leggere ma fondò 50 scuole, un violento, un bandolero. Ma in fondo, prima di tutto, Pancho Villa è leggenda, il mito in carne ed ossa di una utopia realizzabile. Nonostante le distese lunari dell’altipiano della sua Durango fossero possenti, giganti, immense, deve aver pensato che anche per uno piccolo come lui ci fosse possibilitá di riscatto. E che per farlo non fosse necessario un esercito, onorificenze o ricchi capitali, ma potessero bastare volontá e coraggio. O il bisogno urgente ed autentico di spingersi oltre le proprie paure.

Foto: Durango, Messico - 3-11 maggio 2008 letiziajp ©

lunedì, aprile 28, 2008

Problemi generici, Soluzioni personalizzate...


Foto: Mercato, Santiago del Estero - Argentina 2008, letiziajp ©

mercoledì, aprile 23, 2008

Appuntamento a Trento

...dal 29 maggio al 2 giugno per la terza attesissima edizione del Festival dell'Economia. Leitmotiv di quest'anno "Mercato e Democrazia", declinato in molte salse, tutte decisamente commestibili anche per i non addetti ai lavori. Tutto il Programma cliccando qui.


Al lato, oltre alle numerose manifestazioni enogastronomicheculturalsociali, anche un concorso fotografico promosso da LaVoce.info, dal titolo Low Cost - organizzarsi una vita a basso costo. Direi che ognuno di noi può tirar fuori dal cassetto lo scatto giusto per partecipare...

martedì, aprile 22, 2008

Credito vuol dire fiducia?

"Presto dinero a bajos intereses. Pase Usted"
Ovvero, l'insegna pubblicitaria che più spesso mi è capitato di incontrare viaggiando in lungo e in largo per l'America Latina. Passate pure, offro prestiti a interessi bassissimi, seguite la freccia senza timore. E la freccia porta un po' dappertutto, dal garage di pezzi di seconda mano, al supermercato-farmacia, al tinello di casa di qualsiasi persona che una mattina si sveglia con l'ispirazione da bancario. Niente di formale insomma, ma che c'è di male quando nel nostro stesso paese formalità fa rima con elefantiaca burocrazia? Non ci scandalizziamo, la maggior parte delle volte la freccia l'abbiamo seguita con sincera curiosità. Il problema viene dopo, quando si inizia a discutere il significato (personalissimo) di cosa voglia dire "al più basso interesse".
Perché in America latina i tassi di interesse sui prestiti, siano essi applicati da istituti formali o da baracchine improvvisate, sono sempre altissimi, e non solo per i nostri schizzinosi standard occidentali. Bassi perché espressi in termini mensuali ma quando dei mesi si fa la dodicesima somma, l'interesse raggiunge e spesso supera il 100% del prestato. Nell'Italia contadina delle casse rurali, già cento anni fa questo tipo di pratiche le chiamavano "usura" (Ma in fondo pensando al credito al consumo, non serve andare tanto lontano...).
E allora spesso ci è capitato di ripercorrere la freccia al contrario, riportando in strada i buoni propositi e qualche arrabbiata riflessione. Riflessione sul fatto che la parola credito deriva dal latino credere (creditum) ossia "ciò che è stato affidato sulla fiducia". Fiducia. Data e riposta, a volte anche in assenza di garanzie reali, sulla base della conoscenza reciproca, del reciproco rispetto. Oggi però nel mondo sta succedendo qualcosa di bizzarro: la finanza internazionale prende il largo e nel trasporto dell'euforia generale inizia a credere nel denaro facile - la facilità banale dello speculare su ciò che non esiste. E quando il castello crolla, da tanto si passa al niente. E credito nell'era dei subprime diventa piuttosto sinonimo di rischio: da controllare, razionare, regolamentare.
Ecco che la regolamentazione internazionale in materia su questo si fa - giustamente? - rigorosa. Va bene per le grandi banche, ma il discorso di complica per quelle piccole, quelle legate al territorio e a della gente onesta, lavoratrice, che magari non ha garanzie reali e patrimonio da mettere in gioco - e quindi è considerata rischiosa, non finanziabile - ma è gente di cui dicono che ci si può fidare. Lo dimostrano i dati: il tasso di sofferenza delle istituzioni di credito popolare (microfinanziarie, casse rurali ecc..) in America Latina è in media del 2%. Basso. I poveri restituiscono. Ma il prestito deve essere onesto, deve avere un prezzo equo, non certo quello proposto dai signori del cartello esposto sopra. Tutti, ma davvero tutti, almeno una volta nella vita possiamo aver bisogno di un prestito, per realizzare i nostri progetti. Ma solo una piccola parte dei tutti, ancora oggi, ha accesso a un credito onesto. Il bisogno rimane, se un povero è scartato da una banca perché rischioso troverà qualcun altro disposto a finanziare, a qualunque prezzo. Mettiamo da parte i pregiudizi: oggi nel mondo l'accesso al credito è ancora un diritto disatteso, ancora un elemento di priorità. Anche da questo dipende uno sviluppo sostenibile. Non solo degli altri, sto parlando anche del nostro paese. Pensate tra qualche anno a che panorama, se di fianco a casa vostra iniziassero a spuntare insegne pubblicitarie cosi...

Foto: Puno, Perù, febbraio 2008 letiziajp ©

lunedì, aprile 07, 2008

venerdì, aprile 04, 2008

Un fiore per Moki


Si chiama anche "non ti scordar di me", ma mia nonna diceva che erano "gli occhi di Maria" e se cercavi di toccarli con troppo trasporto, la corolla blu volava via e si trasformava in tante piccole lacrime. Mia nonna mi diceva di non coglierli mai, di limitarmi a guardare, e allora tutti quei piccoli occhi sgranati si sarebbero tramutati in un unico grande sorriso.
Oggi lo regalo alla Moki, insieme al mio abbraccio.

mercoledì, aprile 02, 2008

Il bisogno di chiamarsi e basta

E' in questo silenzio dei circuiti che ti sto parlando. So bene che, quando finalmente le nostre voci riusciranno ad incontrarsi sul filo, ci diremo delle frasi generiche e monche; non è per dirti qualcosa che ti sto chiamando, nè perchè creda che tu abbia da dirmi qualcosa.
Ci telefoniamo perchè solo nel chiamarci a lunga distanza, in questo cercarci a tentoni attraverso cavi di rame sepolti, relais ingarbugliati, vorticare di spazzole di selettori intasati, in questo scandagliare il silenzio e attendere il ritorno di un' eco, si perpetua il primo richiamo della lontananza, il grido di quando la prima grande crepa della deriva dei continenti s'è aperta sotto i piedi d'una coppia di esseri umani e gli abissi dell'oceano si sono spalancati a separarli mentre l'uno su una riva e l'altra sull'altra trascinati precipitosamente lontano cercavano col loro grido di tendere un ponte sonoro che ancora li tenesse insieme e che si faceva sempre più flebile finchè il rombo delle onde non lo travolgeva senza speranza.
Da allora la distanza è l'ordito che regge la trama d'ogni storia d'amore come d'ogni rapporto tra viventi, la distanza che gli uccelli cercano di colmare lanciando nell'aria del mattino le arcate sottili dei loro gorgheggi, così come noi lanciando nelle nervature della terra sventagliate d'impulsi elettrici traducibili in comandi per i sistemi a relais: solo modo che resta agli esseri umani di sapere che si stanno chiamando per il bisogno di chiamarsi e basta.

Italo Calvino "Prima che tu dica pronto"

giovedì, marzo 27, 2008

Lago Titicaca e dintorni...

Mi chiedevo perchè fossi sparita per cosi tanto tempo - che silenzio! - dal mio spazio virtuale. Poi le pile di scartoffie sopra la mia scrivania mi hanno risucchiato nel torpore burocratico dei classici giorni d'ufficio. Mi sorprendo a pensare che ogni viaggio che faccio è pura energia, che viene inevitabilmente bruciata ad ogni mio ritorno, nel tentativo di assorbire lo shock culturale della me vagabonda alle prese con la me da scrivania...
Sono appena (due settimane ad essere sinceri) tornata da una nuova entusiasmante trasferta in America Latina, che finalmente mi ha portato ad esplorare posti mai visti, dall'atmosfera surreale e leggera, come quella che si respira al confine tra Bolivia e Perù, nelle acque fluide e l'aria rarefatta dei 4000 metri del lago più alto del mondo: il Titicaca.
Tra le isolette di giunchi galleggianti del mitico lago vivono ancora i discendenti di un mondo preincaico quasi dimenticato, che cercano di trovare un equilibrio - alquanto precario - tra le loro antichissime tradizioni e l'inarrestabile invasione dei turisti di turno. Il risultato è bizzarro, forse eccessivamente colorato, plasticato, inevitabilmente artificiale. Ma in fondo va bene cosi, la cultura si preserva anche nell'incontro con l'altro, soprattutto se questi altri sono turisti curiosi ma responsabili, consapevoli che il viaggio in un'altra terra - terra di altri - non andrebbe mai confuso con una gita allo zoo comunale.
La guida in barca ci ha raccontato che la storia dell’antico regno incaico tramanda la tradizione di un’organizzazione comunitaria vagamente familiare. A seconda dei livelli – statale, comunale e familiare – gli inca dividevano il popolo in MITA, MINKA, AYNI, forme di lavoro comunitario che portava la gente a mettere a disposizione la propria forza lavoro, a seconda dei casi per costruire ponti, palazzi lussuosi del sovrano o aiutare i vicini e i parenti nella raccolta stagionale del mais.
Erano gli albori dell’organizzazione cooperativa andina.
Dal 900 d.c. ad oggi il movimento cooperativo peruviano ne ha fatta di strada , affrontando sconfitte e offrendo risposte ai grandi problemi locali: esclusione economica, povertá, ingiustizia sociale. E' bello sentire di far parte anche di questo mondo...
Il trasferimento da Lima a Buenos Aires è stato veloce e umido, giusto il tempo di infilarmi nelle ultime pagine di in un libro da consigliare: Travesuras de la niňa mala, Mario Varga Llosa.

Foto: letiziajp ©

Lo spirito di Mondragon

All’inizio degli anni 50 nasceva a Mondragon (Arrasate in basco), nella regione basca, nel momento più oscuro della Spagna franchista, il seme di un’iniziativa cooperativa destinata a fare storia. Poco conosciuto in Italia - dove esistono rarissimi casi di pubblicazioni in materia – l’esperienza del Gruppo Cooperativo Mondragon affonda le sue radici in un contesto storico duro e difficile, caratterizzato da scontri latenti, precarietà sociale, fame e povertà. Paradossalmente, come tante volte è capitato agli impulsi cooperativi di tante parti del mondo, è proprio dalle difficoltà che scaturirà la forza per reagire, la voglia di unirsi attorno ad un centro comune, per allontanare la tristezza e la rassegnazione che la guerra civile aveva lasciato nelle anime di tanti giovani del tempo...

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lunedì, febbraio 11, 2008

Se potessi avere 1000 lire al...

Prendiamo due persone, una con dei soldi da parte, l'altra con un'idea da farsi finanziare. I libri di tecnica bancaria ci insegnano che tra quelle due persone c'è un elemento in più - la banca - che accorcia le distanze e permette all'eccedenza del primo di contribuire al bisogno del secondo, senza che i due arrivino mai a guardarsi in faccia. Finora l'istituzione bancaria, piccola o grande che sia, è stata la regina incontrastata dell'intermediazione finanziaria. Da qualche anno a questa parte però, alcune esperienze originali - nate sull'onda di una relazione inversa tra il successo di Internet e la fiducia cittadina nel sistema bancario - ne stanno sfidando la supremazia.
Si chiama social lending (prestito sociale) e dopo aver fatto furore in Inghilterra, Olanda e Stati Uniti è approdato anche in Italia, sulla scia profumata di un discreto successo. Il meccanismo è banalmente semplice e per certi versi già visto - una versione moderna dell'ancestrale baratto - ma la sfida sottesa è degna di analisi: proporsi come punto di incontro virtuale tra chi è disposto ad offrire un prestito e chi ha necessità di richiederlo, scavalcando a piè pari gli intermediari finanziari. Non è da poco scommettere sul fatto che la gente si fidi più di Internet che dello sportello di una banca, eppure il successo di società con simili intenti, come eBay, dimostrano che il sistema funziona, almeno per ora. Ne sono una prova esperienze come Zopa, Boober, Kiva - le prime due già in versione italiana, la terza banco di prova della microfinanza in versione www. Tecnicamente cosa vuol dire?
La forza di queste tre società sta nel mettere a disposizione una piattaforma per prestiti on-line peer-to-peer, ovvero prestiti personali tra privati dove gli iscritti possono offrire/richiedere direttamente denaro, evitando gran parte dei costi della comune attività di intermediazione. Le commissioni richieste dalle società sono molto più basse di quelle richieste dalle banche tradizionali (per Zopa è circa l'1% del prestato) e le condizioni offerte, sia a chi presta che chi riceve, molto più convenienti. Il social lending può essere usato sia per richiedere prestiti (che sono in genere classificabili come micro) che per investire il proprio denaro, con tassi di ritorno di tutto rispetto. La domanda succesiva, ce l'hanno tutti stampata in fronte: è affidabile? I rispettivi gestori dicono di si, e fanno in modo di essere coerenti. Per quanto riguarda i portali versione italiana - Zopa e Boober - sono entrambi iscritti all'Ufficio Italiano Cambi e soggetti a regolamentazione della Banca d'Italia. Inoltre l'ammissione dei richiedenti è abbastanza selettiva, applicando un calcolo di rating capace da ridurre al minimo il rischio finanziario. Iniziative interessanti che probabilmente stanno già conquistandosi un futuro. Non come alternativa unica al sistema bancario, ma come offerta specifica per un mercato di nicchia, composto da gente che per un motivo o per l'altro sente più suo l'approccio peer-to-peer rispetto alla finanza delle grandi dimensioni. Può darsi che sia effettivamente una delle alternative. Come è un'alternativa quella offerta dalle banche di comunità, le casse rurali, le banche cooperative, istituzioni in carne ed ossa che, non senza difficoltà e contraddizzioni, portano comunuque avanti una visione di finanza che guarda meno al profitto e più al benessere complessivo dei soci e dei territori di appartenenza, senza rinunciare ad un'intermediazione reale e concreta, che fa del rapporto diretto e della vicinanza con le persone, uno dei suoi punti di forza e di competitività.
Per vedere da vicino cosa vuol dire, venerdi 15 febbraio le banche di credito cooperativo europee saranno riunite in convention a Bruxelles, per fare il punto sulle prospettive future di questo modo alternativo di pensare il fare banca nel mondo.

Fonte foto: TheBusinessShrink

mercoledì, gennaio 30, 2008

Parabeni

Cosa sono? Non sostanze metafisiche, nè stupefacenti, nulla a che fare col bene comune, anzi. I parabeni hanno preso cittadinanza nella mia quotidianità da quando me ne ha parlato la mia amica Monica, che da anni lavora a Bruxelles per la Health and Environment Alliance, un'associazione europea che si occupa della diffusione di sapere e informazione sul rapporto virtuoso tra salute ed ambiente. Da allora li cerco ovunque, per evitarli. Mi è sembrato importante condividerne il perchè, ecco cosa dice la Moki al rispetto:

"Sui parabens (che ho scoperto in italiano chiamarsi "parabeni") in poche parole, si tratta di conservanti utilizzati per lo più in prodotti cosmetici e farmaceutici come shampoo, dentifricio , schiuma da barba, deodoranti e anche come additivi alimentari. Ne esistono diverse versioni ma la sostanza non cambia: methylparaben (E number E218), ethylparaben (E214), propylparaben (E216) e butylparaben. Secondo vari studi, i parabens interferiscono con le funzioni ormonali del nostro corpo e possono essere quindi tra le cause o concause del cancro al seno. Questi studi sono controversi, e fortemente contestati soprattutto dall'industria cosmetica e farmaceutica che li usa da anni...se cerchi "parabens" su wikipedia ti renderai conto che anche la scienza non è concorde su questo tema. Provare i legami e le connessioni tra agenti ambientali (come le sostanze chimiche insutriali) non è facile, i rapportidi causa-effetto non sono mai lineari anche perchè siamo esposti a una molteplicità di fattori, con tempistiche diverse e il nostro corpo reagisce in modi diversi. Mentre la ricerca prosegue il suo corso, le prove che vengono raccolte dovrebbero spingere ad un atteggiamento sempre più precauzionale riguardo l'utilizzo dei parabeni. E invece, come mai, nel dubbio, le autorità competenti permettono ancora che circoli in commercio una crema per il viso o un deodorante che potrebbe aumentare il rischio di prenderci il cancro? ".

Non è che vogliamo pensare male, ma proprio perchè la questione è ancora così incerta e controversa, la domanda diventa sospetto. Sono solo piccole gocce d'informazione, ma valeva la pena sollevare l'interrogativo. Vi abbiamo incuriosito? O forse...inquietato? Se volete saperne di più: - Cosmetic Database; - Breast Cancer Fund; - Health and Environment Alliance

mercoledì, gennaio 23, 2008

Quanto contano le prime impressioni?

Prendiamo ad esempio Barcellona.
Prima di partire ho ricevuto fiumi di commenti entusiastici di chi c'era stato, di chi sognava andarci, di chi ne aveva solo sentito parlare. Strabiliante. Poi, giusto il giorno prima, un commento ambiguo, detto con un tono che non prometteva nulla di buono: sembra Napoli. Mi è rimasto dentro come un tarlo, quel SembraNapoli e il suono sibilante associato alle parole, come a dargli una strisciata secca di definitività. Forse mi sono fatta suggestionare, ma la mia prima impressione di Barcellona è stata velata da quel borbottio di fondo, che me l'ha fatta vedere sporca e trasandata, un pò triste e un pò sola - come tutti i porti di mare - sotto la superficie traslucida del suo infinito movimento.
Le prime impressioni, ti fregano ed è finita. Come Buenos Aires, che per mesi mi ha sussurrato all'orecchio il suo attaccamento viscerale a origini principalmente italiane, tanto da farmele vedere ovunque, nei modi di fare, nei palazzi, negli squarci di periferia. E non era vero niente, la lingua madre in fondo non inganna mai. Parlano spagnolo, altro che lunfardo, e adesso che l'ho vista mi rendo conto di come la Spagna riemerga prepotente in tutti i profili di Buenos Aires.
Barcellona è tanto bianco-nera di giorno quanto accesa e folle la notte. Bar ovunque popolati di gente a tutte le ore - anche le più piccole - locali alla moda, locali malfamati, eventi, spettacoli, teatrini di strada, concerti, e fiumi, letteralmente fiumi di persone che a partire dalle ventuno cominciano a restituire la vita alle strade, sonnacchiose e lente fino al calare del sole.
Sarà che vivo in pianura padana e posso anche farmi suggestionare da tanta notturna vitalità , ma il fenomeno va oltre il semplice divertimento giovanile. E' infuso nella cultura, negli usi popolari, è la gente vera a vivere di notte, di giorno mi guardo in torno e scopro solo facce come la mia, col bollino turista stampato in fronte. Cammini per Barcellona dopo l'orario che in provincia di Brescia sarebbe definito "coprifuoco", e incontri anziani con la busta della spesa, mamme con passeggino, bambini in fila indiana, giovani a branchi, gente di mezza età che pascola senza fretta in cerca di un posto libero per cenare (meglio dopo mezzanotte). Le impressioni rimbalzano all'indietro, ancora strabiliante.
Quattro giorni di immersione totale nella guida, di chilometri percorsi a piedi, zigzagando tra i quartieri del porto - quelli scuri e stetti e poco rassicuranti - un'avventura finita presto in bicicletta - ho bucato - una sistemazione alla buona in un ostello del centro, a contatto con polvere e multiculturalità - immancabili italiani ovunque. Tutti ingredienti insufficienti a farmi un'idea.
Ma una sensazione mi resta ancora abbastanza addosso: le palme mediterranee scosse da un vento forte, costante, che rincorre impietoso anche dentro i vicoli più stretti; le architetture spiritate e gonfie dei palazzi di Gaudì; l'Aquarium con lo squalo che non può mai smettere di nuotare; la statua di Cristoforo Colombo col dito ferroso e fisso impettito sull'orizzonte; la sporcizia e l'abbandono di interi pezzi di città - città, come Genova e Marsiglia, città porto di mare - i viali timidi di giorno e brulicanti di notte, vivi di giocolieri, trapezisti e immigrati del nord Africa che vendono lattine di birra al pezzo e anche altro, sottovoce. Tutti questi elementi scolpiscono nella mia mente l'immagine di una Barcellona incompiuta, in continua ricomposizione. Nella migliore tradizione del suo archittetto più celebre e celebrato, che con la Sagrada Familia aveva in mente una visione talmente geniale e complicata del sacro, che a distanza di un secolo è ancora lì, cantiere a cielo aperto, in attesa che il miracolo si compia e l'umana fatica - o finanziamenti ingenti - la portino finalmente a compimento. Del resto il nome completo dell'opera, in catalano suona come Tempio espiatorio della Sacra Famiglia e la targa che indica le date di costruzione dice più o meno così:
"1882 - (1926) - ??" L'ingresso costa 8 € e l'incasso è devoluto a finire i lavori. Turisti responsabili, ho contribuito a completare una pietra della mia Barcelona in movimento. Alla fine, tutto torna.

Barcellona 10-14 gennaio 2007
Foto: letiziajp ©

giovedì, gennaio 10, 2008

A scuola di TanGo

La scuola Regina di via Malta 12, a Brescia, riapre i battenti con le nuove proposte di tango argentino per il 2008, rivolte sia ai ballerini più esperti, sia a tutti quelli che vogliono provare a muovere i "primi passi" nella disciplina.
Il Tango argentino, nato più di un secolo fa nelle periferie buie e popolose di Buenos Aires, deve la sua duttilità universale a un'origine meticcia, frutto dell'incontro tra etnie e culture provenienti da tutto il mondo, che nella prima capitale del melting pot trovarono un loro fecondo momento di sintesi, nell'espressione corporea e passionale del ballo.
Negli ultimi anni il fenomeno del Tango ha assunto proporzioni e diffusione importanti anche in Italia, dove si moltiplicano i corsi, gli incontri con professonisti internazionali, i siti web, gli spettacoli d'alto livello e le reti sociali dedicate. Per capire come il Tango sia fermamente entrato nel nostro immaginario collettivo, basta pensare alle scelte di marketing delle aziende più disparate, che utilizzano la sensualità e il fascino del ballo per le loro campagne pubblicitarie a copertura nazionale.
Anche se le piroette e i virtuosismi che ci propongono può farlo sembrare una disciplina per pochi eletti, in realtà il Tango è una danza accessibile a tutti coloro che con curiosità vogliono dare spazio alla libera espressine del proprio corpo.
Con le parole dei due maestri della scuola Regina, Daniele e Roberta, "non esistono persone rigide nel Tango, ognuno può trovare il proprio stile. Il fine dell'apprendimento è portare l'allievo a pensare con il corpo, aiutarlo a scoprirne le regole, le resistenze e le possibilità, per aprirsi alla conoscenza e al dialogo con se e con l'altro". Provare per credere...

venerdì, gennaio 04, 2008

C'era una volta l'Agriasilo

Quando avevo circa dieci anni i miei genitori, seguendo uno spirito d'avventura all'epoca controcorrente, decisero di lasciare un paese ogni anno più caotico per trasferirsi in una casa di campagna, in collina, a pochi chilometri dal mare. Fu così che entrai nell'olimpo di quei fortunati bambini, destinati a vivere a stretto contatto con una natura benevola e ancora dignitosamente intatta.
Ma i miei genitori avevano anche un altro regalo in serbo per me: il tempo. Il loro tempo, dedicato ad insegnarmi a riconoscere una quercia, piantare bulbi di tulipani e piantine di insalata, avvolgere nei fogli di carta le bottiglie di pomodoro da far cuocere nel calderone nero, per assicurare un'ottima passata per tutto l'inverno. Imparai anche ad individuare nel boschetto le tane delle volpi - le volpi, ancora numerose, solo pochi anni fa - e con la calce bianca e dell'acqua fresca, rubare per sempre l'impronta di qualsiasi animale che passasse di lì.
Era il periodo in cui alle scuole elementari c'era solo una maestra, che diventava il punto di riferimento, la guida. Con lei in classe piantavamo i fagioli nel cotone, aspettando trepidanti che si compisse il miracolo del borlotto trasformato in filo d'erba. A casa avevo un pollaio con oche, galline e conigli, le casette con le api e anche una capretta. Grazie a loro ho vissuto dal vivo la nascita di un pulcino, la stagionatura di una forma di formaggio, il ciclo di vita dal polline al miele.
Una stagione ricca e fervida la mia infanzia, tanto da farmi sentire - forse a torto? - una privilegiata. Come fanno i bambini che vivono in città? O quelli i cui genitori lavorano tutto il giorno, quelli che vivono in appartamento o semplicemente tutti quelli che passano da casa a scuola e viceversa senza sperimentare mai, nemmeno per un attimo, il significato concreto del mondo che li circonda? Forse è anche a causa da questa lontananza dalla natura, dalla sperimentazione fisica del quotidiano, che, secondo l'OCSE, i giovani italiani sono tra i più ignoranti d'Europa?
Qualunque sia la risposta, c'è chi sta già pensando alle soluzioni migliori e più ingegnose per invertire la tendenza: da un'iniziativa della Coldiretti nascono in Italia gli Agriasili, delle fattorie alternative che affiancano all'attività agricola caratteristica, un utilissimo servizio di asilo infantile. Il primo agriasilo italiano - La Piemontesina - pare sia nato a Chiavasso, in provincia di Torino ed offre ai bambini ospiti la possibilità di seguire i lavori della campagna, accudire piccoli animali e osservare come crescono e producono le piante.
Come afferma la Coldiretti, "l'Agriasilo offre l'occasione di un incontro positivo tra le esigenze dei genitori di garantire un ambiente e un'alimentazione sana ai propri figli e quella delle imprenditrici e imprenditori agricoli alla ricerca di nuovi stimoli nel lavoro all'interno dell'azienda".
L'idea funziona, tanto che attualmente in Italia si stanno moltiplicando le esperienze di questo tipo, autentiche "alternative ecologiche" agli asili spesso angusti di città. Ma anche sperimentazioni capaci di aprire finestre importanti per un settore agricolo messo alle strette da un mercato mondiale non più così generoso. Che sia una formula creativa ed efficace per piantare semi di responsabilità sociale nei cittadini di domani?
Pubblicato anche su Popolis

giovedì, gennaio 03, 2008

Appostiamoci

"Poste Italiane è un innovativo e competitivo operatore di servizi finanziari e di pagamento. Ogni elemento interagisce con l'altro ed è funzionale a raggiungere e soddisfare le richieste del cliente. Onestà, trasparenza, correttezza, senso di responsabilità e affidabilità sono i valori che caratterizzano il Gruppo Poste Italiane e che guidano i comportamenti nelle relazioni interne e nei rapporti con l'esterno, generando fiducia e credibilità. Poste Italiane è un servizio pubblico con un'importante funzione sociale: il Servizio Universale. " (http://www.poste.it/)

La citazione non è tratta da un libro di fantascienza ma dal rispettabile sito della Poste Italiane. Ho selezionato le frasi più significative, quelle che più di ogni altra evocano nella memoria i momenti indimenticabili passati infilata in coda, in quel modo tutto italiano che hanno le code di disfarsi e sfaldarsi man mano che ci sia avvicina allo sportello. Della posta del paese dove abito conosco per inerzia ogni anfratto nei muri, la forma inflessibile dell'orologio, le cartoline di Natale e i francobolli col Papa, tutti amorevolmente appiccicati ai vetri di quegli sportelli perennemente in disuso, così da farli sembrare meno inesorabilmente vuoti alla trentina di persone che aspettano - sbruffando come balene - che si sia liberato l'unico operatore (innovativo e competitivo) disponibile. Appena varcata la porta del nostro ufficio postale, scatta dentro qualcosa di antropologicamente interessante: un certo senso di ineluttabilità misto a fatalismo, che al massimo trova sfogo in timidi tentativi di protesta esternati col tuo vicino, più per ingannare il tempo che per farsi davvero sentire.
Perchè, nonostante quello che vorrebbe raccontarci il sito delle Poste Italiane, il servizio, lungi dal generare fiducia e credibilità, ha generato nel pubblico la stessa umana reazione di molti altri servizi statali, che chiamereri piuttosto...spirito di sopravvivenza, che in alcuni rari casi sfocia in esasperazione. Nella maggioranza dei casi invece sopportiamo code interminabili, uffici sottodimensionati, impiegati isterici che se la prendono con noi e noi con loro, e usciamo da li carichi di un'energia negativa - capace di illuminare tutti i colossei d'Italia - che viene dispersa nelle ricadute inevitabili di una mattinata buttata via per pagare una bolletta. I seguaci di slow food potrebbero obiettare che la velocità è la vera malattia e potremmo utilizzare il tempo speso in piedi negli affidabili uffici postali per pensare a noi stessi, recitare una poesia, scambiare due chiacchiere col mondo. Una pratica tutta orientale della calma e della tolleranza che mi ha quasi convinto, finchè è entrato un indiano e si è lanciato in un sermone di lamenti, per il tempo che gli tocca perdere ogni volta che deve mandare due lire in India (per non parlare che adesso le poste sono addette ai rinnovi dei permessi di soggiorno....amen). Neanche in India gli capitava di aspettare tanto? Incredibile, quanti pregiudizi, quanti stereotipi incondizionati!
Forse dovremmo ringraziarle le Poste Italiane, per questa ginnastica forzata all'attesa a cui ci hanno addomesticato. Il servizio pubblico che riesce nell'impresa di educare alla pazienza, alla docilità, un cittadino pienamente consapevole che i servizi che gli offre lo Stato (offre? ma non servivano a questo le tasse...?) sono un disastro insensato (davvero cosi difficile da sanare?) di inefficienza e mediocrità, ma continua ad usarli senza opporre eccessiva resistenza. La sottomissione, ecco la vera rivoluzione sociale dei nostrani servizi universali.

Io come Alice

Se non sai dove stai andando, qualunque strada ti ci porterà


Lewis Carroll

lunedì, dicembre 24, 2007

Alla vita, che non finisce mai

Mi porto dietro quest'immagine dell'infanzia, dove i mesi sono ordinatamente divisi in due file parallele, a sinistra gennaio-giugno, a destra luglio-dicembre. E' chiaro quindi che questa parte dell'anno la vedo da sempre come la coda del calendario, il mozzicone andato che fuma ricordi dai camini delle case agghindate a festa. E questi ultimi giorni...una tasca, un limbo scuro e caldo dove mi rifugio crogiolando ciò che è stato, per allontanare ancora un poco il pensiero della macchina che si rimette in moto verso le strisce dritte delle mie due parallele. Da qui, il miglior augurio che mi sento di poter fare è che la vita vi sia lieve e che voi siate tra quelli capaci di stupire l'universo...

La vita è grande. Rovina e fortuna, patimento e gioia, schiavitù e affrancamento, rotolano e si cozzano tra loro su un tavolo talmente vasto, in un gioco cosi complicato, che solo un pazzo può pensare di poterlo governare per intero e per sempre, per se stesso e per gli altri. Naturalmente i pazzi in questa natura abbondano. Capita addirittura che alcuni di loro invece di passare per quello che sono, per pazzi scatenati, godano momentaneamente fama di persone avvedute, sapienti oltre ogni limite sopra il proprio e l'altrui destino, dotati di provvidenziali capacità e poteri. Costoro se la spassano da signori per un pò di tempo, fino a quando la vita, la tragica grande storia delal vita, si incarica di svelare l'obbrobrio della loro follia. Chi l'avrebbe mai detto, lamentano sconcertati i loro seguaci ed estimatori. Già, chi l'avrebbe mai detto. Il fatto è che la vita non finisce mai, il suo orizzonte è oltre l'ultimo orizzonte visibile. Il fatto è che lo sguardo, anche il più acuto, è sempre meno lungo di quanto faccia piacere crederlo. E per fortuna che è cosi, altrimenti gli umani sarebbero già finiti da un bel pezzo; malamente, miseramente, prevedibilmente finiti. E invece, dopo tante sventure e disastri, sono ancora lì a stupire l'universo. (Maurizio Maggiani, La Regina Disadorna)

mercoledì, dicembre 19, 2007

Oltre quale confine

Cosa vi viene in mente se dico "immigrato"?
Forse dipende dalla vostra età, dal ceto sociale, da quante storie hanno avuto la possibilità di raccontarvi i vostri i nonni nelle sere d'inverno davanti al fuoco. O forse dipende dal vostro vicino di casa e dalla vostra professione, se lavorate in posta o in un cantiere, al bar o all'ultimo piano di un edificio commerciale. Se dovessi dirvi io, la prima immagine che mi sale agli occhi sono gli spot delle banche all'avanguardia, la western union, il mercato del sabato a Brescia, l'odore di spezie e peperoncino sul pianerottolo di casa, i miei vicini indiani, lo scoramento delle maestre per la percentuale di bambini che arriva a metà anno senza parlare una parola di italiano e il terrorismo mediatico della stampa nostrana, sempre pronta ad usare le parole in maniera a dir poco strumentale (come se ci fosse differenza tra un rapinatore "rumeno" e uno italiano).
Ma questa è la mia contemporaneità, l'immigrazione che ho vissuto per interposta persona, vedendomela pasare accanto ogni giorno, per strada, in TV, nelle nuove strategie di marketing aziendale. Ma qui dovrebbe intervenire la memoria (storica), per ricordare anche il passato che non abbiamo vissuto, per rendere più relativa l'esistenza e più morbido il nostro atteggiamento nei confronti degli altri. E' un pensiero banale, ma viste le grida popolari alla "emergenza immigrati" non poi cosi scontata...me l'ha fatto venire in mente il romanzo di gioventù di John Fante, l'unica opera scritta in terza persona, quasi a prendere un certo distacco da una storia pur tutta autobiografica, quasi a guardare dall'esterno quel bambino spaurito che era, impegnato ogni giorno contro le sue origini italiane in un'America ostile del primo novecento. "Si chiamava Svevo Bandini e abitava in quella strada, tre isolati più avanti. Aveva freddo e le scarpe sfondate. Quella mattina le aveva rattoppate con dei pezzi di cartone di una scatola di pasta. Pasta che non era stata pagata. Detestava la neve. Faceva il muratore e la neve gelava la calce tra i mattoni che posava. Anche da ragazzo, in Italia, in Abruzzo, detestava la neve...Era cosi povero, con tre figli a carico, e non aveva neppure pagato la pasta, per non parlare della casa che ospitava figli e pasta." E il figlio di Svevo, , l'alter-ego indiscusso di J. Fante sempiterno protagonista di ogni sua storia"di nome faceva Arturo, ma avrebbe preferito chiamarsi John. Di cognome faceva Bandini ma lui avrebbe preferito chiamarsi Jones. Suo padre e sua madre erano italiani ma lui avrebbe preferito essere americano. Suo padre faceva il mutratore, ma lui avrebbe preferito diventare il lanciatore dei Chicago Cubs". (John Fante - Aspetta Primavera, Bandini - 1938)

martedì, dicembre 11, 2007

E il Dirigibile...torna a volare (by I.R.)

10 dicembre 2007, per ricordare Ahmet Ertegun, mitico fondatore dell’etichetta Atlantic Records, e loro caro amico e scopritore, Robert Plant, Jimmy Page e Jonh Paul Jones decidono di riaccendere i motori del dirigibile per riportarlo in volo ancora una volta, dopo che si erano tragicamente spenti il 25 settembre 1980 con la morte del batterista Jonh “Bonzo” Bonham. Oggi al suo posto è stato chiamato il figlio Jason, 41 anni, cresciuto come in una famiglia all’interno della più grande Rock band di tutti I tempi. Chi ha potuto assistere all’evento (…ed io purtroppo non ero tra questi), parla di una emozione crescente quando alle 21.00 in punto si sono accesi gli amplificatori, ed i cuori di milioni di fan, sulle note di “Good times bad times”, canzone datata 1969 e prima traccia del primo disco dei Led Zeppelin, quasi si volessi ricominciare da là, dall’inizio di tutto. La scaletta ha poi toccato tutte le tappe della storia del Rock segnate da canzoni degli Zeppelin come “Black Dog”, “Dazed and Confused”, “Stairway to heaven” fino a “Whole lotta love”. Dalle poche immagini passate alla TV, spiccano i cenerei lunghi capelli di Page, ed una diffusa calvizie tra il pubblico presente, segno del tempo che è passato da quei favolosi anni settanta, che rimangono però sempre vivi nei cuori, e pronti a riaccendersi sulle note emozionanti di una canzone.

Autore articolo: Ivan R. (U.T.L'U.R.)