sabato, aprile 30, 2011

TRASLOCO

Chi passa di qua di tanto in tanto si sarà accorto del lungo silenzio...stavo traslocando! In senso creativo ovviamente, che per fortuna Internet ci segue ovunque ed i traslochi fisici non incidono - quasi mai - nella possibilità di raccontare. Il fatto è che ora il racconto si sposta su tutt'altra dimensione, come spesso succede nella vita...del resto, si tratta pur sempre di cuentos peregrinos...Ed eccoci allora pronti (-e!) ad iniziare una nuova avventura!

Curiosi di seguirmi?


Infilate le scarpette e vi troverete in ottima compagnia...




Che state facendo ancora qui ??

Foto: letiziajp 2011

sabato, settembre 25, 2010

Roba da inizio secolo....

Catturare l’attenzione, persuadere e ottenere l’appoggio solidale della grande massa inerte che noi chiamiamo pubblico è un compito delicato e difficile. La stampa, in quanto principale mezzo di informazione, è l’unica all’altezza di farlo. E se svolgerà questo compito con intelligenza, coscienziosità e coraggio, diffondendo consapevolezza come il sole diffonde la luce, il potere dell’opinione pubblica contribuirà alla giustizia nel governo, alla trasparenza in politica e a una più alta moralità negli affari e nella vita sociale della nazione.

Joseph Pulitzer - 1904

venerdì, agosto 27, 2010

Splendida virtù chiamata disubbidienza

Vorrei tu fossi donna. Vorrei che tu provassi un giorno ciò che provo io. Lo so: il nostro è un mondo fabbricato dagli uomini per gli uomini, la loro dittatura è così antica che si estende perfino al linguaggio. Si dice uomo per dire uomo e donna. La prima creatura non è una donna: è un uomo chiamato Adamo. Eva arriva dopo, per divertirlo e combinare guai. Dio è un vecchio con la barba: mai una vecchia coi capelli bianchi. E tutti i loro eroi sono maschi: da quel Prometeo che scoprì il fuoco a quell’Icaro che tentò di volare, su fino a quel Gesù che dichiarano figlio del Padre e dello Spirito Santo: quasi che la donna da cui fu partorito fosse un’incubatrice o una balia. Eppure, o proprio per questo,essere donna è così affascinante. E’ un’avventura che richiede un tale coraggio,una sfida che non annoia mai. Avrai tante cose da fare se nascerai donna. Per incominciare, avrai da batterti per sostenere che se Dio esistesse potrebbe anche essere una vecchia coi capelli bianchi o un bella ragazza. Poi avrai da batterti per spiegare che il peccato non nacque il giorno in cui Eva,colse una mela: quel giorno nacque una splendida virtù chiamata disubbidienza. Infine avrai da batterti per dimostrare che dentro il tuo corpo liscio e rotondo c’è un’intelligenza che urla d’essere ascoltata. Essere mamma non è un mestiere. Non è nemmeno un dovere. E’ solo un diritto fra tanti diritti. Faticherai tanto ad urlarlo. E spesso, quasi sempre, perderai. Ma non dovrai scoraggiarti. Battersi è molto più bello che vincere, viaggiare è molto più bello che arrivare: quando sei arrivato o hai vinto, avverti un gran vuoto. E per superare quel vuoto devi metterti in viaggio di nuovo, crearti nuovi scopi. Sì, spero tu sia una donna. (O.F.)

Non pensavo che fosse ancora necessario citare frasi cosi. Nella mia testa era comunque una semplice questione di civiltà, di buon senso. Eppure è arrivata al momento giusto e ha colto nel segno, ha scavato dentro una fessura nuda che sta diventando crepa. E non è un buon segno. Per l'Italia, intendo. Per me si invece, è un buon segno che queste parole mi parlino dentro, perchè in un attimo ho capito che non sono una pazza irresponsabile, ma solo una di quelle che si trova a suo agio dentro la propria disubbidienza...

giovedì, luglio 22, 2010

domenica, maggio 23, 2010

venerdì, marzo 26, 2010

Leggi di natura

Il mio pensiero fondamentale è che la gente, per una legge di natura, si divide generalmente in due categorie: una inferiore (gli ordinari), ovvero per così dire, il materiale utile unicamente alla procreazione di qualcosa di simile a se stesso, e un'altra che è quella degli uomini, ovvero di coloro in possesso del dono o del talento di dire la loro parola nuova nell'ambiente. A questo punto si intende che le suddivisioni sono infinite, ma i tratti distintivi di entrambe le categorie sono abbastanza netti: la prima categoria, ovvero il materiale, parlando in termini generali consiste in persone per loro natura conservatrici, ammodo, che vivono nell'obbedienza e amano essere obbedienti. (...) Nella seconda categoria, invece, tutti violano la legge, sono dei distruttori, o sono inclini a esserlo, a seconda delle capacità. S'intende che i delitti di queste persone sono relativi, e dei più vari; perlopiù essi esigono, nelle forme più svariate, la distruzione del presente in nome di qualcosa di migliore. (...) La prima categoria è sempre signora del presente, la seconda categoria è signora del futuro.I primi conservano il mondo e l'accrescono numericamente, i secondi muovono il mondo e lo conducono verso una meta. Tanto questi che quelli hanno esattamente lo stesso diritto di esistere.

FËDOR DOSTOEVSKIJ - Delitto e castigo

venerdì, febbraio 12, 2010

New skills for new jobs: action now!

Nel dicembre 2008 la Commissione Europea lanciò un’iniziativa politica volta a costruire legami più solidi tra mondo della formazione e mondo del lavoro. Il gruppo di esperti creato a tale scopo ha recentemente evidenziato - in una conferenza tenutasi a Bruxelles il 4 febbraio dal titolo “New skills for new jobs” - che una delle maggiori sfide dell’Europa da qui al 2020 sarà proprio quello di comprendre come ampliare e qualificare il portafoglio di competenze degli individui, affinchè siano in grado di generare nuove forme – non solo nuovi posti - di lavoro e di dotarsi delle capacità per gestirle al meglio. Secondo le ultime proiezioni di CEDEFOP sull’evoluzione della domanda e offerta di competenze in Europa, entro il 2020 saranno creati 7 milioni di nuovi posti di lavoro, a cui si aggiungono i 73 milioni di opportunità lavorative frutto della naturale evoluzione del mercato (pensionamenti o mobilità). Se dal lato della domanda di personale le proiezioni evidenziano che la richiesta di capacità e competenze è in costante aumento, dal lato dell’offerta si registra un trend simmetrico, con una diminuzione delle persone meno qualificate (anche dovuto al ricambio generazionale) e l’aumento di persone altamente o mediamente qualificate. Tuttavia, le previsioni suggeriscono un ulteriore appesantimento della tendenza già in atto, che vede molte persone con qualifiche elevate ricoprire posti di lavoro di basso profilo. Le ricerche di Cedefop suggeriscono che il problema non è tanto essere “sovraqualificati”, ma è il sotto utilizzo di qualifiche e competenze a costituire una seria minaccia per il benessere degli individui, delle imprese e della società nel suo complesso....

....Continua su RENA......

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lunedì, febbraio 01, 2010

Ḥammām

L'invasione della Siria bizantina nel VII secolo portò agli arabi conquistatori il dono inaspettato degli edifici termali. Preservati dalla distruzione, i bagni di vapore riuscirono a compiere l'incantesimo più ardito: sposare il culto pagano del corpo con l'anelo purificatore della relegione. E' dal matrimonio più improbabile tra occidente e mondo islamico che nasce l'hammam, luogo di pace e penombra, di preghiera e socialità. Se l'Islam fu alla base della fortunata diffusione dei bagni termali in tutto il mondo arabo, il bisogno di incontrarsi, chiacchierare e fare affari, coccolati da atmosfere dense e profumate, è per i frequentantori dell'hammam tanto importante quanto le impellenze igenica e religiosa. La rigorosa separazione tra i sessi, a orari distinti del giorno, consente la totale libertà d'espressione del lavarsi, che dall'atto accelerato e inconscio a cui ci ha abituato il nostro concetto di tempo - tra le impellenze di onnipresenti impegni e neoattuali emergenze ambientali - diventa un vero e proprio rito di socializzante virtù. Domenica pomeriggio ho scoperto che l'hammam non è altro che una formula sofisticata di moderna terapia, una ricetta a metà strada tra un corso di autostima e un social network di comunità. Varcata la soglia de Le Riad ci lasciamo alle spalle il quartiere grigio cemento di Schaerbeek e pensando di essere ancora in Belgio, entriamo di fatto in un quartiere popolare di Marrakesh. Profumo d'incenso e mirra, risate sommesse, passi attutiti, donne grasse e more che intrecciano capelli bevendo thè alla menta, mentre ogni tanto una voce schioccante e acuta improvvisa un suono che sa di canzone e i corpi iniziano una danza strana. Movimenti, per le nostre figure impacciate e tese, impossibili da replicare. Ci muoviamo con circospezione in questo vociante universo di donne berbere, attente ad ogni passo, ad ogni rumore, in balìa di una balia pesante che in poche parole ci spiega di sloggiare, parcheggiandoci in un angolo tra cuscini e candele. Entrare per la prima volta in un hammam è come lanciarsi in una pista da ballo senza conoscere i passi, come essere allo zoo dalla parte di quegli animali esotici rinchiusi in gabbiette strette, tutti ti guardano con un risolino strano, a metà tra il divertimento e la compassione... Arriva finalmente il nostro turno e infiliamo costume e sandali, asciugamano caldo di panno e in fila scendiamo le scale in direzione del vapore. Di sotto ci aspetta la prova concreta della nostra menomazione culturale: l'occidente delle libertà stridenti, nel ventre caldo dell'hammam fa i conti con le proprie radicate inibizioni. Di fronte a quella piccola folla di donne festose, coperte solo di sapone nero e carne molle, i nostri quattro costumi da mare fanno lo stesso effetto di quattro armature dietro cui nasconderci, piano, fino a scomparire. La domenica pomeriggio l'hammam è lo spazio delle donne: madri, figlie, sorelle, amiche che condividono un'epidermide spessa e scura, la voce allegra, il tempo del lavarsi a vicenda, a fondo. Come se quello strofinare forte fosse la prova del loro legame più solido, fatto di pelle rigorosamente protetta all'esterno, che in quel luogo spensierato e buio diventa il palcoscenico della loro reale libertà. Dove i segni del tempo sui corpi non sono mai oggetto d'attenzione, ma solo il segnale cronologico della parabola che percorrerà inevitabilmente la vita di ciascuna, la vita di tutti. Mentre indugiano a lungo nei pavimenti di pietra, nell'intercalare cantilenante di quella loro lingua rauca, io mi lascio rigirare e strofinare da una corpulenta Hamami, che solo con strizzate d'occhi e movimenti di mano mi indica la posa da prendere e quando è ora di andare. L'epidermide morta viene via insieme al sapone nero di Aleppo e io sento che il mio peso perde sostanza inutile, diventa leggero. Mi guardo intorno e penso a questi spazi di madri-figlie-sorelle-amiche, piazze sotterranee riempite di una fisicità sana - serena - dove si insegna a prendersi cura di se prendendosi cura degli altri. Ed esco con una rilassatezza anomala, come se in quello strofinare graffiante e ruvido le mani sapienti avessero attraversato il corpo, toccando in qualche interstizio dimenticato, un nodo gonfio da massaggiare.

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lunedì, gennaio 18, 2010

L'inizio di una conoscenza, che sia di persone oppure di cose, consiste nell'ottenere un contorno definito della nostra ignoranza.

(George Eliot)

lunedì, gennaio 11, 2010

Porto di mare

Le notizie dovrebbero nascere per veicolare abbastanza informazioni per farsi un'opinione. Questa di SkyTV sull'Hotel House - 480 appartamenti anni 70 alle porte di Porto Recanati (MC)dove vivono più o meno stipate circa 2000 persone, in grande maggioranza extracomunitari - a dir la verità mi ha lasciato...perplessa. La velocità dei tempi video si sa, è impietosa: raccogliere-comprimere-filmare-passare ad altro. Però, sarà che mi sento parte in causa, sarà che l'Hotel House si è stagliato per tanti anni come uno spillo inguardabile sull'orizzonte delle mie biciclettate da casa al mare e ritorno - non senza una punta, ammetto, di inquietudine nell'affrontare il tragitto a certe ore del giorno - sarà che ho un caro amico che ha tentato di amministrare quei condomini per anni e saprebbe raccontarci molte più storie di quelle racchiuse nei 3.30 del servizio. Sarà per tutto questo e per la sensazione, in fondo, di indignato stupore per la frase di chiusura del cittadino più illustre, che definisce l'inguardabile gruviera come "motivo d'orgoglio di questa città".


Non avremo mai registrato "motivi di intolleranza" - ed è proprio tutto da dimostrare - ma una soluzione dove non esiste integrazione, dove non c'è un progetto di cittadinanza e appartenenza, dove la periferia diventa canale di spurgo di operazioni immobiliari sempre orientate al massimo profitto a prescindere dagli effetti sociali, economici e culturali. Dove si vive stipati, dove si continua a parlare di Noi e Loro, dove non c'è dialogo nè conoscenza reciproca, dove si vive come vicini ma senza capirsi, negando qualsiasi flebile legame di comune appartenenza - come se il territorio non creasse radici comuni! - non è una soluzione di cui andare orgogliosi. Io non la definirei neppure una soluzione. E' una scelta di comodo avvenuta abbastanza per caso, che andrà bene finchè la "babele" sarà socialmente disciplinata e geograficamente contenibile. L'alternativa sarebbe ammettere che forse c'è qualcosa che non va nella gestione degli spazi urbani e della socialità in questo bel porto di mare, l'alternativa sarebbe discuterne, aprire spazi di confronto, mettersi in discussione, non certo per il mea culpa personale ma per il bene comune, che è poi il ruolo e la missione di cui è investito qualsiasi eletto alla cosa pubblica.
Un pò dura? Dall'estero l'attaccamento alle origini si sa, si fa più forte. In fondo in fondo resta lo sconcerto per una notizia che non mi ha dato strumenti per capire. A me che in quel paese ci sono cresciuta, figurarsi a chi ci arriva per caso, come succede sempre, nei porti di mare....

PS: grazie a Francesca A, per aver fatto girare la notizia...

sabato, dicembre 12, 2009

lunedì, novembre 23, 2009

Però, (cosa vuol dire però)
Mi sveglio col piede sinistro
Quello giusto

Forse Già lo sai che a volte la follia
Sembra l'unica via
Per la felicità

C'era una volta un ragazzo
chiamato pazzo
e diceva sto meglio in un pozzo
che su un piedistallo

Oggi indosso
la giacca dell'anno scorso
che così mi riconosco
ed esco

Dopo i fiori piantati
quelli raccolti
quelli regalati
quelli appassiti

Ho deciso
di perdermi nel mondo
anche se sprofondo
lascio che le cose
mi portino altrove
non importa dove
non importa dove

Io, un tempo era semplice
ma ho sprecato tutta l'energia
per il ritorno
Lascio le parole non dette
prendo tutta la cosmogonia
e la butto via
e mi ci butto anch'io

Sotto le coperte
che ci sono le bombe
è come un brutto sogno
che diventa realtà

Ho deciso
di perdermi nel mondo
anche se sprofondo
Applico alla vita
i puntini di sospensione
Che nell'incosciente
non c'è negazione
un ultimo sguardo
commosso all'arredamento
e chi si è visto, s'è visto

Svincolarsi dalle convinzioni
dalle pose e dalle posizioni

Lascio che le cose
mi portino altrove
altrove
altrove
Svincolarsi dalle convinzioni
dalle pose e dalle posizioni

Altrove

domenica, novembre 22, 2009

Aggiungo stella a stella, sbucherò da qualche parte*

“Ho sempre avuto, nel corso della mia intera esistenza, la netta sensazione di aver vissuto in altri tempi e in altri luoghi, di aver addirittura ospitato in me altre persone”. A parlare è Darrel Standing - professore rinchiuso nel carcere di San Quentin per un delitto passionale e in attesa della pena capitale per aver accidentalmente colpito di striscio un secondino - ma è anche e soprattutto il suo autore. Scrittore prolifico – anche se in Italia poco conosciuto, se non nelle vicende epiche in versione cartonata di Zanna Bianca e Il richiamo della foresta - Jack London (1876 – 1916) ha impregnato di vissuto tutta la sua scrittura, attingendo alle suggestioni di un’esistenza eclettica che lo ha visto strillone di giornali, pescatore di ostriche, lavandaio, cacciatore di foche, corrispondente di guerra russo-giapponese e cercatore d'oro, per poi diventare uno scrittore ricco e di successo già tra i suoi conteporanei.
Le sue pagine sono infatti imbevute di estremo realismo anche nei passaggi più surreali, che nel Vagabondo delle stelle si trasformano in viaggi mentali nella galassia di vite anteriori, in fuga dal corpo e dalla realtà disumana di San Quentin. Eppure, nonostante l’apparente suggestione di paesaggi fantastici, il libro resta in ogni rigo uno strumento terreno - storico - un veicolo di denuncia sociale, per mettere i suoi contemporanei di fronte alle condizione carcerarie di un’America che si voleva civile e civilizzata.
Da lì il pensiero dell’eternità. La sensazione che in fondo l’uomo non fa che ripetere i propri gesti all’infinito, in un incessante e monotono ripetersi di errori e tentativi di catarsi travestiti da progresso. La passeggiata tra le stelle è una presa di coscienza, non la salvazione. Una coscienza intrisa di disillusione quella di London, che determinerà anche il corso – e la fine – della sua esistenza. In fondo, se Darrell Standing riesce nella tecnica di sgusciare via dal corpo per librarsi alla ricerca di precedenti vite, questo non serve a modificare il presente e renderlo più giusto – sarebbe stato banale, un sortilegio senza possibilità di immedesimazione - ma aiuta invece a liberarsi dalle barriere che gli impedivano di ricordare e - ottenuta la prova dell’eternità umana - non impazzire dal dolore. Del resto, a cosa serve condannarlo a morte se nessuno di noi può morire, se la sua sarà solo una “morte minore”, quella del corpo, mentre l’anima intatta cercherà nuove galassie dove atterrare?
Condanna anche questo London, che nella vita ha sperimentato di tutto, ma non si illude che l'aver scoperto la possibilità di viaggiare tra le stelle gli dia la chiave per sconfiggere l'ingiustizia. Lo dice bene il titolo, il suo è un vagabondaggio, un oblio che non porta salvezza, ma solo la scoperta di una maggiore consapevolezza. Che libera dalle frenesie del contingente e da un’umanità ipocrita e noiosa, incapace di redimersi nel ricordo delle sue precedenti edizioni.

*Battiato, Vite parallele

martedì, ottobre 06, 2009

Adiós Negra....




San Miguel de Tucumán 9/7/1935 – Buenos Aires 4/10/2009

domenica, settembre 06, 2009

Il viaggio dell'elefante

Si narra che durante il regno di Dom João III, detto Il Pio, quindicesimo reggente del Portogallo e dell'Algarve, un elefante asiatico - frutto delle colonie e per due anni parcheggiato a Belem - fu offerto in dono a Massimiliano d'Austria, potente Imperatore del Sacro Romano Impero, nonchè apparentato col lusitano reggente. Correva l'anno 1551 e l'epico elefante, chiamato Salomone, si trovò a percorrere mezza Europa sorretto solo da quattro pachidermiche zampe, per assecondare, nel silenzio composto di chi non ha voce, capricci reali e assurde strategie. Strane logiche segue la storia: delle corti e dei reggenti sono pieni i libri, mentre delle sorti del prode Salomone non è rimasta traccia, se non nella sapiente penna di Saramago José (A viagem do elefante - Alfaguara Editore). Il mio primo pensiero appena atterrata a Lisbona, dopo due ore e trenta di volo, è corso a Salomone e a quanto piovosa e grigia deve essergli sembrata Vienna al confronto del riflesso abbagliante della capitale Portoghese, con tutti i suoi più antichi edifici in mostra al margine del Rio Tejo, ispiratore silente di tante fortunate scoperte, quando ancora il mondo era fatto per farsi scoprire. Spesso la storia fa tabula rasa, nel caso di Lisbona è come se i pezzi fossero rimasti tutti li, a disposizione del conquistatore di turno, per tener buona la forma e cambiarne a piacimento il contenuto. Costruita sugli strati sovrapposti di fenici e romani, mori e cristiani, spagnoli e rifugiati coloniali, l'antica Olissipo oggi punta i piedi su pietre sacre - pietre dure - che devastanti terremoti hanno più volte rimescolato e amalgamato con la terra, tanto che da nessuno dei suoi sette colli è oggi possibile afferrare la città nel suo insieme. Il confine è mobile, circoscritto nei diversi quartieri, come nei disegni esperti dei più celebri azulejos . Tra tanta geografia racchiusa in così angusti spazi, io non ho dubbi, chiudo gli occhi e scelgo, Alfahama. Quartiere arabo che sa d'Europa, losco di notte, una miscela di sardine alla griglia, panni stesi, vicoli stretti di sassi e scale, dove i colori si stemperano nel bianco scrostato dei muri e il vento ti investe all'improvviso, in un angolo a caso, giù verso le Avenidas ampie del porto e le braccia aperte al cielo del Cristo gemello di Rio. Lisbona, anche lei porto di mare, dove lo sguardo si impiglia ovunque ma sempre trova una via di fuga nell'orizzonte. Barcellona mi era sembrata sporca, Lisbona decadente, è diverso. Dove là i vicoli del porto sembravano unti, qui anche i palazzi sventrati hanno dietro pezzi di cielo, a rivestire una perdizione dignitosa, consapevole che l'umanità che passa aggiunge, grazie a quell'inconsapevole dote che fa del diverso un'opportunità di creazione. Guardata da Bruxelles, Lisbona appare ancora oggi periferia d'Europa. Neutrale nelle guerre, ambigua nelle alleanze, disciplinata nelle rivoluzioni. E' proprio questione di prospettive. Ho passato cinque intensissimi giorni con lo sguardo infilato tra la Lonely Planet e il paesaggio intorno e, passo dopo passo, cresceva la sensazione che per capire Lisbona bisognasse guardare in senso oppostp al continente. Il mare aperto, quell'orizzonte perso nella mancanza di appigli, la promessa di terre gemelle, l'attrazione per lontananze segrete. Non fanalino di coda ma avamposto a ovest, questa è Lisbona, che ha dalla sua quell'inesauribile vista che si perde in mare, libera dalle logiche ristrette di ogni confine. Certo, la libertà non si compra ad etti e raramente è gratis. E' più facile ricordarsi il nome del paese scoperto piuttosto che quello dell'ardito scopritore. E così Vasco de Gama si scolora tra il bianco della pietra e i volti attenti dei suoi marinai, congelato e anonimo ai bordi della caravella di pietra di Belem. Mentre Joao I, ispiratore celebrato delle scoperte africane e antenato di quel III che per un frivolo vezzo mandò all'esilio Salomone, deve accontentarsi di fungere da triste bersaglio per piccioni e graffitari, in attesa che in Praca da Figueira torni l'ordine e la pulizia. La memoria dell'uomo, si sa, è cosa corta, ma non tutto si perde. In fondo, del passato di Lisbona resta il mosaico dei suoi antenati, un vuoto che dà un senso alla saudade e che il fado - musica popolare portoghese dalle origini meticce - canta ancora come un comune destino. Che fai lì, Lisbona, con gli occhi puntati al fiume, Gli occhi non sono ormeggi per ancorare la nave... Del resto è proprio questo che intendeva Pessoa, rincorso per tutta la vita da quella serpeggiante inquietudine. Non sai mai cosa ti aspetta dall'altra sponda di un viaggio. Ho scoperto che molti alberghi del Tirolo e dell’Austria sono davvero intitolati all’Elefante e a Trento un ricercatore, impiegato nella Biblioteca comunale, ha recentemente pubblicato un racconto sul passaggio per la città del corteo di Massimiliano d’Asburgo e Maria di Spagna. Titolo: “Suleyman l’elefante: un barrito in Contrada Larga”. Ha ragione Saramago, siempre acabamos llegando adonde nos esperan.

Foto: letiziajp © , Lisbona - agosto 2009

mercoledì, agosto 26, 2009

...Stava per andare a Lisbona ma non associava ancora il nome della città dove forse Billy Swan sarebbe morto con il titolo di una canzone che lui stesso aveva composto e nemmeno con quel luogo che a lungo aveva sbarrato alla sua memoria. Solo alcune ore dopo, all'aereoporto, quando vide Lisboa scritto a lettere luminose sul tabellone dei voli in partenza, ricordò quanto questa parola avesse significato per lui, tanto tempo prima, in un'altra vita, e capì che tutte le città dove aveva vissuto dopo aver lasciato San Sebastian erano i prolungati episodi di un viaggio che forse adesso avrebbe concluso: tutto quel tempo ad aspettare e fuggire, e nel giro di due ore sarebbe arrivato a Lisbona.

Antonio M. Molina - L'inverno a Lisbona

martedì, luglio 28, 2009

Tempo di andare...

Fonte foto: 2009 letiziajp ©

lunedì, luglio 06, 2009

Blackbird singing in the dead of night
Take these broken wings and learn to fly
All your life
You were only waiting for this moment to arise
Black bird singing in the dead of night
Take these sunken eyes and learn to see
all your life
you were only waiting for this moment to be free
Blackbird fly,
Blackbird fly
Into the light of the dark black night.

Blackbird fly,
Blackbird fly
Into the light of the dark black night.

Blackbird singing in the dead of night
Take these broken wings and learn to fly
All your life
You were only waiting for this moment to arise,
You were only waiting for this moment to arise
You were only waiting for this moment to arise...

venerdì, luglio 03, 2009

L'Honduras nell'era dell'informazione di massa

L’Honduras ogni tanto rientra nella mia vita, nei modi più impensati. Una lettera o una foto trovata in un armadio dopo l'ennesimo trasloco, l'insofferenza per le scelte di marketing del famoso reality, il ricordo vago di un frutto, la mail di un amico. Ma l'ultima cosa a cui avrei mai pensato era un colpo di stato.
Sottolineo il termine e sottolineo il fatto che prima di usarlo ci ho pensato. Mi sono documentata. Mi sono fatta un'opinione, che non deve quasi nulla - se non nelle sue sfumature più ciniche - alla stimatissima stampa nazionale. Ammetto di avere la fortuna dell'osservatore privilegiato, quello che ha vissuto abbastanza nel teatro dei fatti da poter contare su una buona memoria e su una rete di amicizie pronte a fotografare la realtà. Ma proprio per questo riesco ad aprire gli occhi sull'imprecisione, mancanza di senso critico e assenza di approfondimento con cui vengono confezionate le notizie oggigiorno. E mi limito solo alla stampa nazionale. Partiamo dal principio, la stampa italiana riporta la notizia: la Corte Suprema di Tegucigalpa ha ordinato ai militari di agire, deponendo il Presidente Honduregno Miguel Zelaya, poiché quest’ultimo aveva tentato di "violare la legge facendo votare un referendum per autorizzare la sua elezione". Scendiamo nei dettagli: il Sole 24 Ore parla di "arresto", riferendosi a quello che di fatto è stato un sequestro di persona ad opera delle Forze Armate, su incarico della Corte Suprema. (Sarò pignola?) Poi poco più avanti, in chiusura, sempre lo stesso autorevole quotidiano cita come unica fonte La Prensa, quotidiano hondureno che - come la maggior parte dei giornali locali - non brilla certo per obiettività. Passiamo a La Repubblica, che fin dall’occhiello del suo articolo fa prontamente capire di avere gli stessi informatori del Sole24Ore, quando scrive “Zelaya arrestato e trasferito in Costa Rica. Voleva riformare la Costituzione per essere rieletto”. Per non parlare di Studio Aperto (…) che ha mandato in onda un servizio nel quale i compatrioti bergamaschi di Micheletti - di origini apunto bergamasche – gli inviavano i migliori auguri per il “nuovo incarico presidenziale”.
L’Honduras lo conoscono in pochi – 7 milioni di abitanti, povertà e violenza, caffè e banane, non ne fanno la meta più ambita del turismo mondiale – e capisco che tenere un corrispondente sul posto, in un momento in cui i fatti Iraniani (solo per citarne una) stanno mettendo a rischio il delicato equilibrio mediorientale, possa rappresentare per molta stampa un costo inutile. Ma possibile che nessun quotidiano si sia preso la briga di verificare quelle “due o tre verità che contano”? Come l’Iran ci ha già insegnato – e come sarà sempre più preponderante in futuro? – le versioni meno facili, meno precotte, meno edulcorate dai passaparola delle agenzie di stampa ufficiali, sono quelle che arrivano via facebook, twitter, o per e-mail da quei pochi amici o amici di amici che per scelta o per nascita sono ancora sul posto, a raccontare, dei fatti, un’altra versione. Il contraddittorio, si dice, è la base della giustizia, a maggior ragione quando l’imputato è la stessa democrazia.
Bene, il popolo della rete questo racconta: la quarta urna voluta da Zelaya per il referendum popolare non avrebbe avuto l’effetto di “permettergli di candidarsi per un secondo mandato”, ma quello di consultare la popolazione sulla possibilità di una riforma costituzionale, più complessa e articolata della sola rielezione su cui si è concentrata tutta la stampa italiana. Anche se il referendum fosse andato in porto, la riforma della Costituzione non sarebbe stata avviata prima del 2010, cioè con già un nuovo presidente in carica (le elezioni sono previste per novembre 2009). L’anomalia che si voleva riformare – eredità della repressione militare degli anni 80, quando il paese veniva utilizzato dagli USA come base di appoggio per le operazioni antiguerriglia nei paesi limitrofi - è una anomalia istituzionale che vive della sostanziale assenza di separazione dei poteri, in uno stato dove il Legislativo (Congresso Nazionale della Repubblica) si sovrappone all’Esecutivo nella gestione di gran parte del budget nazionale, senza che ci sia nessuna istituzione che ne controlli l’operato. Da qui l’alto livello di corruzzione che affligge da sempre il paese e che impedisce qualsiasi speranza di uno sviluppo diffuso. E il terzo potere? In Honduras i giudici sono nominati dal Congresso Nazionale. Il Potere Legislativo fa le veci del Potere Esecutivo su ampia quota della finanziaria locale e nomina il Potere Giudiziario. Che effetto avrebbe su questo schizzofrenico equilibrio istituzionale una riforma volta a porre le basi per la modernizzazione del paese? La risposta se la devono essere data abbastanza in fretta i rappresentanti della minoranza privilegiata che siedono nel Congresso e nella Corte Suprema. Portare le Forze Armate dalla loro parte non deve essergli poi costato neanche tanto. Separazione dei Poteri, uno dei principi fondamentali dello stato di diritto e tema del test di ingresso a Gorizia, nel lontanissimo 1997. Incredibili i giri che fa la storia, a volte, per tornarti incontro.
Miguel Zelaya non è un martire del regime. Delle promesse fatte in campagna elettorale molte sono rimaste nella sfera dei buoni propositi e sembra che negli ultimi tempi il consenso popolare nei suoi confronti fosse in netto calo. Anche avesse puntato alla rielezione, non avrebbe potuto condidarsi prima del 2013, correndo ad armi pari con altri precedenti presidenti rimessi in pista dalla sua stessa riforma. E forse, in fondo, l’Honduras – con un livelo di corruzzione tra i più alti al mondo, povertà, generalizzata apatia e onnipresenza del narcotraffico - non è ancora pronto a gestire in trasparenza una Costituzione degna di un moderno stato democratico, che la riforma tentata da Zelaya puntava a creare. Forse i poteri devono ancora restare accentrati, sicuramente con maggiore controllo da parte di organismi esterni, magari internazionali. C’è poi chi sostiene che esistono anche altri modelli per organizzare una società e che il colpo di stato in Honduras non solo sia perciò legittimo, ma anche dovuto, in ottemperanza alla legge locale. Poi però non dice nulla se sia legale o meno che in questo momento siano stati sospesi - su richiesta del nuovo, temporaneo, Presidente post-golpe - tutti i principali diritti costituzionali.
Ma non è questo il punto. Il governo golpista non durerà a lungo, stretto tra le pressioni popolari e l’isolamento internazionale. Il punto è che nessun giornale degno di questo nome ha riportato i fatti ragionandoci sopra, cercando risposte, investigando su più fonti. In sostanza, facendo quello che ci si aspetta faccia il giornalismo: spiegare la realtà. Non semplificarla, appiattendola sulla ripetizione ossessiva di passaparola vuoti di significato e valore.
Questi sono i fatti come me li hanno riportati testimoni diretti come Carlos Penalver o come COFADEH, Sergio Fernando Bahr Caballero, Luisa Cruz, Alerta Libre e tanti altri che in questi giorni ho seguito su Facebook o sentito via e-mail e che raccontano di giovani nei quartieri poveri reclutati a forza dai militari, repressioni violente, televisioni chiuse, giornali e siti web oscurati. Mi chiedo quale sarebbe stata la mia opinione se non avessi avuto un canale diretto con l’Honduras. Mi chiedo quante volte ho avuto la sensazione di ascoltare notizie e leggere articoli che per fretta o distrazione ho preso per veri, perdendomi così pezzi essenziali di verità. Se anche l’informazione è diventata un’industria – non una professione, non un diritto/dovere essenziale – allora mi chiedo, infine, se la carta stampata deciderà di combattere sul piano della concorrenza le moderne, immateriali ma efficacissime, evoluzioni della comunicazione (da Facebook a Twitter passando per YouTube) o se preferirà giocare in ritirata, in nome dell’ormai purtroppo diffusa differenziazione tra “informazione di massa” e “informazione di qualità”. Tante domande mi faccio, le risposte ho come il sospetto che dovrò cercarmele da me. Un effetto positivo questa vicenda ce l’ha comunque avuto: portare il popole honduregno per strada, dargli finalmente lo stimolo per alzare la voce. Le foto sono gentile cortesia di chi è rimasto, per raccontare.

lunedì, giugno 29, 2009

L'Eurotunnel, dove ci porterà

Se mi chiedessero con quale mezzo mi sposto più volentieri risponderei senza indugio il treno! , non solo per la libertà silenziosa che ti concedono rotaie ben piantate sulla terra, ma anche per il frastorno di arrivi e partenze in tante stazioni diverse del pianeta. Quelle pance scure e umide, sempre brulicanti di odori e di mondo, a metà strada tra la hall di un aereoporto e la fermata del tram. Le stazioni ti fanno guadagnare il viaggio e ti danno il tempo di rimettere in moto i cinque sensi, prima di lanciare il piede fuori, tra la luce e la folla. Quello di sabato 27 giugno, ad esempio, è stato un viaggio fuori dal comune, destinazione: stazione di Londra St-Pancras. Viaggio non proprio esotico, ma speciale per vari motivi: andavo al mio primo concerto di Neil Young ed era la prima volta che a Londra ci arrivavo in treno, viaggiando a -40 metri sotto il fondale marino. E poi il fatto che, a 1 ora e 57 minuti dalla capitale d'Europa, collegata da un passaggio chiamato "Eurotunnel", si piombi in un paese che guarda alla casa comune con costante, britannico, distacco, come quelle automobili che riempi con solo 10 euro alla volta, giusto per evitare di rimanere a secco proprio il giorno del bisogno. Essere costretta ad affrontare una frontiera europea dovendo riesumare i gesti tipici di un viaggio intercontinentale - carta d'identità, controllo di sicurezza, cambio valuta (!) - mi ha fatto riflettere sull'incongruenza della situazione in cui ci troviamo, a un mese dalle elezioni europee: da un lato, la maggioranza dei cittadini ha espresso un (non) voto di sostanziale sfiducia (o inconsapevolezza?) nei confronti del progetto europeo, confermando la freddezza inglese verso il processo di integrazione; dall'altro, resta l'indiscutibilità incompresa degli innumerevoli vantaggi che ha portato con se l'unificazione, nonostante i costi, i rallentamenti e i compromessi che il delicato processo di composizione delle diversità sempre comporta. Per rendersene conto basterebbe sperimentare un giorno senza Europa: annullare l'euro tornando nel caos inflazionistico dei biglietti da 1000 lire, ristabilire con un tratto di penna tutte le frontiere che Schengen ha eliminato, revocare ogni centesimo di sussidio erogato da fondi comunitari, discriminare i lavoratori di un altro paese europeo ma anche viceversa, rialzare le tariffe di trasporti aerei, cellulari e trasferimenti bancari e chiudere tutte le strutture costruite grazie ai fondi strutturali.
Sarà che ho passato gli ultimi quattro mesi immersa in strade e discorsi e documenti che sudano retorica europeista. Saranno gli effetti della crisi finanziaria che ha colpito duro nel cuore della city. Oppure il dispetto per la capacità targata UK di venderci l'inglese come lingua franca, il latte nel thè e la MIFiD, per poi utilizzare immancabilmente il trucchetto dell'opting-out ogni volta che una decisione a 27 puzza troppo di deriva sovranazionale. Sarà tutto questo e la voglia, in fondo, di prendere le meritate distanze dall'indigestione brussellese, eppure sabato, mentre calcolavo quanti euro fanno i pound per un caffè, l'Europa non mi è mai sembrata cosi lontana e arrugginita. Forse è davvero arrivato il momento di nuove idee, dopo aver vissuto per cinquant'anni della rendita lungimirante di uomini che avevano vissuto la guerra e per questo erano determinati a non volerne più sapere. Ma le novità in tempi di crisi, si sa, raramente pagano in consenso popolare. Per questo ha ragione l'Economist, quando sostiene che in fondo Barroso è tanto criticato non tanto perchè sia stato un amministratore inefficiente di una Commissione poco ambiziosa, ma perchè incarna la cattiva coscienza di ciascun capo di governo, che in pubblico muove critiche virtuose, ma nel privato sa che non avrebbe mai sostenuto un capo della Commissione determinato a giocare la partita europea a scapito dei poteri nazionali. Insomma, nella famiglia europea contano ancora più le singole stelline che lo sfondo blu dell'unione. La crisi ci ha reso particolarmente ipocondriaci: costruiamo ponti sugli stretti, canali a ventimilaleghe sotti i mari, gallerie e trafori, perchè cosi è più comodo passare da una parte all'altra, per poi immancabilmente blindarci nel nostro orticello quando fuori tira aria di tempesta. Questo devono aver pensato anche i Tory del partito conservatore inglese, che come promesso in campagna elettorale, sono usciti dal PPE per dare vita ad un nuovo gruppo parlamentare europeo, i Conservatori e Riformisti.



Se la pluralità di espressioni è la ricchezza della democrazia, l'assortimento euroscettico-nazionalista degli alleati dei Tory nel nuovo gruppo solleva forti dubbi sui vantaggi del caso. Di certo non migliora i rapporti già tesi tra Londra e Bruxelles, nonostante l'Eurostar costi cosi poco e il viaggio duri in fondo solo due ore. Chissà come si sarebbe espresso il corrispondente di guerra e primo ministro britannico (1940 - 1945 e 1951-1955) Wiston Churchill, uno dei primi ad invocare la costruzione degli Stati Uniti d'Europa, unica soluzione che "in pochi anni renderebbe tutta l’Europa .... libera e.... felice."
Sulla via del ritorno St-Pancras-Bruxelles, piena delle emozioni di un concerto storico e della variegata umanità di Camden Town, mi sono venuti in mente i latinoamericani, che ogni volta che li incontri in giro per il mondo e gli chiedi da dove vengono, la prima risposta - quella istintiva, quella di pancia - non è quasi mai Messicano, Boliviano o Peruviano, ma quasi sempre, indiscutibilmente, latinoamericanos. Gli Argentini fanno in genere eccezione, ma questa è una storia che ho già raccontato tempo fa.

Fonte foto: Londra, Hyde Park, giugno 2009 letiziajp ©

lunedì, giugno 22, 2009

3 - NOTTE

Lucciole girovaghe
ubriacano il crepuscolo
di vivaci interruzioni
Evaporano i contorni
di ciò che resta del giorno
Attutiti i passi
Sapiente distacco
scompone il pensiero
Lo rifonde
Mentre brezze leggere
trasportano odori
Intuizioni
come radici e foglie
Vaga lo sguardo
La terra suda
il calore del giorno
Insetti distratti
dipingono inattese geometrie
Sapori agrodolci
Animali selvatici
che la coltre lunare risveglia
Richiamo di specchi d’acqua
Cristallina clandestinità
Echeggia un piacere
sussurrato alle soglie del buio
Puntini fluorescenti
Città disseminate
bucano di vita
l’abbraccio oscuro
tra terra e cielo

venerdì, giugno 19, 2009

2 - MERIGGIO

Stelle filanti
Assenza di pensieri
Riluce l’essenza a brandelli
Stanche le membra stanche
Sopiti gli istinti
di attiva ribellione
Sguardi allungano l'orizzonte
come allucinazione
Bruciore scomposto
invade i sensi
Li disperde
Asseconda l’istinto
una malata apatia
L’intorno agli occhi è vuoto
Immobilizza i desideri
li sfuma
Anestetizzati dall’ansia del vivere
Analizzati alla luce di esotiche patologie
Ricadere esausti
La volontà perduta
Setacciata in granelli di tempo
rincorrendo l’ombra
di una fugace immortalità
Attendere il cambiamento
Ore più tiepide
Bramata frescura
L’azione riscopre
nell’istante
il nucleo arancio
del suo ardore

giovedì, giugno 18, 2009

1 - RISVEGLI

Sussurri
Interrotti dallo svolgersi limpido
di brina
Gocce lente rotonde
Scivola il respiro
dall’ansia del risveglio
Battito di ciglia
Immagini
di un tempo interiore
sfuggono l’informe
Riconquista di geometrie conosciute
Incresparsi impreciso
di labbra sottili
Carne
è il sapore pulito dell’alba
Scivola il corpo
l’anima torna sopita
Lascia il battito
il ritmo consueto del vivere
La notte risponde a melodie
che accendono luci dopo il tramonto
Tra le crepe confuse di un sogno
una nostalgia interrompe la quiete
La trasforma
Pieghe tra le lenzuola tiepide
tra la pelle
Muscoli riassaporano la vita
dopo la distrazione dell’incontro
Nell’attimo esatto di un movimento
sospinta con forza
oltre distanze e finiti contorni
Ogni estremità
beve avida
il presente antico
del nuovo giorno

mercoledì, maggio 27, 2009

Non disprezzare il poco, il meno, il non abbastanza
L’umile, il non visto, il fioco, il silenzioso
Perché quando saranno passati amori e battaglie
Nell’ultimo camminare, nella spoglia stanza

Non resteranno il fuoco e il sublime, il trionfo e la fanfara
Ma braci, un sorso d’acqua, una parola sussurrata, una nota
Il poco, il meno il non abbastanza


Stefano Benni

domenica, maggio 24, 2009

Cosa sto facendo nel frattempo (7 marzo 2009 - ....)

Adesso basta. Mi avete ripreso da più fronti con la stessa frase appuntita ("Non scrivi più?!" cit.). Ma ammetto che la cosa, invece di stizzirmi, mi ha felicemene stupito. Ho anch'io i miei 20 fedelissimi lettori, e la cosa non è per niente scontata. Tuttavia, vi rassicuro, l'assenza di post non è assenza di vita, qualcosa starò pure facendo nel frattempo (e neanche questa è per niente scontata...). Ma dirlo non basta. Per cui stamattina ho inumidito il dito indice e ho preso a sfogliare freneticamente http://www.garzantilinguistica.it/. Ne è venuto fuori che una spiegazione c'è: sto metabolizzando.

Metabolizzare: 2 (fig.) assorbire trasformando in qualcosa di compatibile con sé; assimilare, digerire: es. gli americani sono in grado di metabolizzare gli apporti culturali più diversi.

Sull'esempio portato dal sign. Garzanti avrei qualche dubbio, ma quello che conta in questa sede è che la definizione mi calza a pennello. Per cui, fedelissimi lettori, portate pazienza. Non ho il blocco dello scrittore, niente apatie, nè viaggi intorno al mondo (sic!). Sto semplicemente sperimentando il complesso delle trasformazioni di natura chimica che avvengono negli organismi viventi e attraverso le quali essi si conservano e si rinnovano...

Fonte foto: letiziajp ©

lunedì, marzo 02, 2009

L'evoluzione impercettibile dei cambiamenti

...Bruxelles, coi suoi viali ampi e le case basse che lasciano sempre vedere il cielo, anche quando il grigio della pioggia lo ricopre di nuvole. Bruxelles e il profumo di kebab, cannella e goffres dolciastre che riempie l’aria, i suoi quartieri multietnici e i canti arabi a due passi dalla Cattedrale, la Stazione Centrale e il fiume incessante di volti che mi passa accanto, senza fretta e senza rumore. Bruxelles e i suoi spazi aperti, il parco dietro casa e l’autobus numero 92, il cicaleccio dei bambini turchi sotto la finestra di camera mia, le passeggiate fino a casa di Laurence, un bicchiere di birra e il calore sicuro di un’amicizia. E la Grand Place, piazza centrale che ti sorprende alla fine di un dedalo stretto di vicoli con uno degli scorci più suggestivi d’Europa, dove così tante volte sono corsa la domenica mattina, alla ricerca del profumo dei primi giorni d’inverno e dei tesori del mercatino delle pulci da esplorare. Da questa distanza, finalmente, capisco come appare l’Italia all’esterno, Italia così gelosa dei suoi confini territoriali da considerarsi ancora Stato-Nazione autonoma e a se stante, in una geografia che invece si fa sempre più europea. Cittadini d’Europa, sembrava un concetto da campagna politica, buono per convincere un elettorato sfiduciato e stanco di anni di promesse non mantenute, invece Bruxelles dimostra che è davvero possibile sentirsi così.
Non si tratta solo di questioni economiche, non è una moneta comune che ci fa essere parte dell’insieme, è piuttosto una coscienza storica, una nostalgia per elementi che accomunano piuttosto che dividere. Nei dibattiti del Parlamento Europeo, negli incontri tra Commissione e Società Civile, nelle manifestazioni per la pace, negli scontri tra immigrati e nei poveri che affollano la Stazione Nord alla ricerca di un posto caldo e di un arrivo definitivo, in tutto questo c’è qualcosa che mi riguarda, che ci riguarda tutti e ci trascina a forza al di fuori dei nostri singoli rassicuranti confini. E’ l’inevitabilità di un destino comune, nato per evitare una volta per tutte gli orrori di una nuova guerra e cresciuto grazie alla convinzione di chi ha creduto nel potere creativo della collaborazione e della fiducia reciproca. La fluttuazione dei prezzi nei mercati francesi, i disastri naturali spagnoli o italiani, la politica agricola tedesca, tutto ciò avrà delle ripercussioni in ogni singolo stato membro, impossibile poter pensare ancora di vivere in territori a compartimenti stagno.
Ma l’importanza di quest’appartenenza comune è visibile solo dal di fuori, quanti in Italia percepiscono il loro essere europei, quanti ci credono, quanti conoscono i loro diritti, i loro doveri, le loro possibilità al di fuori e all’interno dell’Italia stessa? Le vicende politiche nazionali si fanno sempre più sconcertanti, gli interessi dei singoli hanno la meglio sul benessere della collettività, il sistema scolastico sta implodendo sotto i colpi di una riforma caotica che insegue modelli esteri vincenti, i prezzi aumentano, le contestazioni meschine tra partiti accrescono la sfiducia nel potere di un voto e di un ideale. Questa è l’Italia vista dall’esterno, questa è l’Italia dipinta dai giornali stranieri, derisa nelle conversazioni tra colleghi in un ufficio qualunque di Bruxelles, l’Italia che non riesco a difendere, che non riesco a giustificare.
Eppure non posso che credere che le cose cambieranno, devono cambiare, il cammino verso una identità europea non può che essere inevitabile. Una identità che non si basi solo sui proventi economici di un mercato comune, libero e senza barriere, né solo su strategie di difesa militare contro una minaccia esterna da cui difendersi. La base di tutto va ricercata nell’apertura mentale verso tutto ciò che è diverso da noi stessi, nella predisposizione all’ascolto, nel contributo costante per rendere la nostra società un posto migliore da abitare. E’ il principio democratico che si fa spazio tra le pieghe dei particolarismi nazionali e degli interessi individuali e sul quale bisogna partire per costruire il paese Europa. Democrazia che non è solo l’espressione di un diritto di voto ma anche il dovere di costruirsi sempre un’opinione, invece di trincerarsi dietro un velo di cieca indifferenza per ciò che ci accade intorno. Inutile lamentarsi che le cose non funzionano se poi non si propone un’idea per cambiarle, un’alternativa da cui ricominciare.
Siamo ancora in tempo per far si che la società in cui ci ritroveremo a vivere tra due, cinque, dieci anni, sia il frutto di un cammino liberamente scelto e intrapreso e non piuttosto il risultato casuale della nostra inerzia intellettuale.
(Leti appunti - Bruxelles, luglio 2003)

domenica, febbraio 08, 2009

Sistema dis-incentivante

L'altro giorno ero a lezione. Una delle ultime, una delle tante. Stava quasi per riprendermi quella smania impotente di essere altrove, quando è successo un fatto che ha dato un senso all'intero pomeriggio di ascolto forzato. Quando un mio compagno seduto qualche sedia più in là, ha lasciato che una frase volutamente provocatoria restasse nell'aria un minuto di troppo, infiammando un'aula di colpo ingestibile per quel dirigente in pensione che era andato avanti a ripetere la sua lezionioncina da manuale con la diligenza di chi non si aspetta mai domande fuori dalle righe. Il tema: la gestione delle risorse umane; il passaggio critico: la bontà intrinseca dei sistemi incentivanti; la provocazione del collega: dobbiamo riconoscere che l'uomo è sempre e comunque mosso da motivazioni economiche, per cui l'esistenza di un sistema incentivante di natura monetaria è l'unico strumento per ottenere risultati aziendali soddisfacenti. In quel momento ci siamo tutti svegliati di colpo, diventando un turbinio ingestibile di pro e contro, il cui unico obiettivo era del resto liberarci della passività dell'ascolto. Un modo come un altro per dissentire. Possibile essere tacciati di beata ingenuità perchè si crede fermamente che quello che ci muove nella vita non è il mero istinto di gonfiare il portafoglio? In ogni caso, il pensiero pesante e contorto che mi sono portata a casa non è tanto il sospetto istintivo per i sistemi incentivanti di qualsisi natura - è come il discorso sul PIL: in un mondo finito, fino a quando la crescita potrà essere considerata un obiettivo irrinunciabile per misurare il nostro ben-essere futuro? - quanto il fatto che spesso, sopraffatti dalla stanchezza e da tante parole, mettiamo il cervello in stand by e diamo per scontato che chi siede al di là della cattedra debba essere per forza un oracolo di scienza infusa. Lo spirito critico non scatta o lo fa quando è ormai troppo tardi. La lezione si è già sedimentata, pesante e tronfia, è diventata "verità" perchè nessuno l'ha messa in discussione e noi abbiamo perso l'ennesima occasione di lottare per dar vita ad un'idea, per insignificante che fosse. Eppure tutto, ma proprio tutto, dipende dalla nostra visione del mondo, o meglio, dalla visione del mondo della corrente dominante. Tempo fa ho regalato ad un amico una stampa del Don Quixote di Picasso. Molti l'hanno vista e hanno pensato: "per tutte le battaglie perse contro i mulini a vento!". Nella mia testa c'era invece Sancho Panza e l'incrollabile, inspiegabile, fedeltà, che solo la vera amicizia ti può regalare.

giovedì, gennaio 22, 2009

Come Ulisse a Itaca, iniziò il 2009...

Nella mia giovinezza ho navigato
lungo le coste dalmate. Isolotti
a fior d’onda emergevano, ove raro
un uccello sostava intento a prede,
coperti d’alghe, scivolosi, al sole
belli come smeraldi. Quando l’alta
marea e la notte li annullava, vele
sottovento sbandavano più al largo,
per fuggirne l’insidia. Oggi il mio regno
è quella terra di nessuno. Il porto
accende ad altri i suoi lumi; me al largo
sospinge ancora il non domato spirito
e della vita il doloroso amore.

Ulisse, Umberto Saba

giovedì, dicembre 18, 2008

Anche bancariamente parlando

In Italia due milioni di famiglie vivono in condizioni di povertà e quasi un milione è a rischio povertà. Ciò significa che qualsiasi evento imprevisto può influire negativamente sul precario benessere familiare, spesso in maniera irreversibile. A dirlo non è soltanto l’Istat, ma soprattutto le testimonianze raccolte dalla Caritas in molte città italiane. Storie che parlano di famiglie comuni che fanno fatica ad arrivare alla fine del mese e sono costrette a indebitarsi o a ricorrere ai centri assistenziali, nonostante abbiano un lavoro e un reddito. Per queste persone l’accesso a un credito agevolato può diventare determinante per superare il momento di crisi. Da questa consapevolezza la Caritas della diocesi di Brescia, in collaborazione con tre banche di credito cooperativo della provincia ha avviato un progetto Microcredito Sociale, per concedere prestiti di piccolo ammontare a condizioni favorevoli a persone in situazioni di particolare difficoltà. Come funziona? Il meccanismo è semplice: la Caritas ha predisposto un fondo di garanzia di 45.000€, le tre BCC lo hanno moltiplicato per quattro, stanziando risorse per 180.000€ e hanno messo a disposizione tre ex dipendenti in pensione che, con la loro esperienza possono aiutare a trovare le soluzioni più adatte ai bisogni incontrati. Per accedere al microcredito bisogna rivolgersi a un “garante morale” che verifichi i requisiti e introduca la persona al progetto. In questo modo si è dato vita a una rete di soggetti che accompagnano l’individuo per tutto il periodo di difficoltà, ben oltre l’aspetto finanziario.
Un’analisi dei primi mesi di progetto ha evidenziato che chi accede al microcredito ha bisogni che vanno dalle spese scolastiche dei figli al pagamento della cauzione dell’affitto, all’acquisto di un’auto per recarsi al lavoro, ma soprattutto per estinguere debiti pregressi, sintomo di una società che vede nel consumo un obiettivo irrinunciabile e sta perdendo il senso di un uso consapevole delle risorse a disposizione. Bisogna sottolineare che il microcredito non è un’attività di beneficienza. Ha in sé una dimensione economica importante, che punta a restituire dignità e autonomia alle persone. Dare soldi a fondo perduto sarebbe più facile, ma di certo non utile. Anche se concesso a condizioni particolari un prestito deve essere rimborsato, il debitore deve farsi carico degli impegni assunti. L’obiettivo del Microcredito Sociale è dunque più ambizioso del semplice prestare: punta ad accompagnare le persone verso una più consapevole gestione del denaro, responsabilizzarle sull’importanza del risparmio, inserirle in una rete che dia punti di riferimento e consigli. Per le tre BCC partecipare al progetto è stata una scelta naturale: le casse rurali in Italia sono nate per combattere l’usura e permettere l’accesso al credito alle categorie più deboli. Nei vecchi registri contabili delle casse rurali si scopre che i primi prestiti erano stati concessi per comprare sementi, aratri, una mucche. La vera scommessa, in quei casi, non era farsi restituire il prestito da gente umile, povera, ma il fatto di credere che da quell’aratro o da quelle sementi potesse scaturire il benessere futuro di quelle persone. Fare microcredito oggi vuol dire rinnovare quella fede, quella speranza di cento anni fa. Il progetto Microcredito Sociale può essere dunque riassunto in due elementi: una sfida e una speranza. La sfida è dimostrare che anche la solidarietà, se lungimirante, può essere efficiente: il prestito se ben gestito, a differenza della beneficienza, autoalimenta i fondi a disposizione e permette di arrivare a più persone, durare nel tempo. La speranza è che queste iniziative servano a ricondurre l’attenzione dai numeri all’uomo, con le sue debolezze, i suoi bisogni e i suoi progetti di futuro. Progetti che non sempre sono economicamente misurabili, ma che possono comunque essere degni di fiducia. Anche bancariamente parlando.

venerdì, dicembre 05, 2008

Je n'ai pas peur de la route
Faudra voir, faut qu'on y goûte
Des méandres au creux des reins
Et tout ira bien (là)
Le vent nous portera

Tout disparaîtra mais
Le vent nous portera

martedì, dicembre 02, 2008

Controluci di Natale

Nonostante i suoi 20 gradi al sole, anche Durango si prepara al Natale. Se da noi vanno di moda le luminarie natalizie, che fanno cosi atmosfera se accompagnate da qualche fiocco di neve, qui l'illuminazione si moltiplica per quattro, non c'è albero, palo della luce, balcone dei palazzi o semaforo che la scampi dal rivestimento navideno. Nella migliore tradizione latinoamericana, quello che conta è eccedere e a Durango, altopiano temperato situato nel cuore della mezzaluna messicana, nessuno vuol essere da meno. Mi aggiro nel tripudio di luci e lucine, mentre la gente come onda di formiche invade la piazza principale di chiacchiere e risate e mi chiedo se per una volta il Messico sia rimasto indenne dalla crisi. I messicani ci tengono ad essere chiamati nordamericani, per non confornderli con i vicini del centro - decisamente più poveri - e con i cugini del sud - decisamente un emisfero a parte. Con l'America targata USA, invece, sono tante le cose in comune: le maquilladoras, il trattato di libero commercio, la repubblica presidenziale, l'idiosincrasia per lo spostarsi a piedi e il mangiare salutare, una delle frontiere più trafficate del mondo, l'hobby di passare i sabati pomeriggio a spasso per il Mall, l'alto tasso di diabete e obesità, anche fra i più giovani. Eppure l'attuale crisi finanziaria non sembra aver scosso più di tanto Mexico City, nonostante il panorama bancario messicano sia popolato quasi esclusivamente da banche straniere. Un Natale tranquillo dunque, per gli Stati Uniti del Messico. Eppure....
Eppure qualche cambiamento c'è stato. Le crisi finanziarie sono le più subdole, le uniche in grado di innescare in pochissimo tempo una diffusione sistemica di malanni e crepe. Per questo non c'è da stupirsi se il primo campanello di allarme per il Messico non sia da ricercare nei bilanci delle banche, ma nei dati demografici. Negli ultimi sei mesi i flussi migratori si sono invertiti. Nonostante le traversie affrontate per passare in terra statunitense, la gente - soprattutto quella in possesso di visto - ritorna a casa. E non certo per festeggiare il Natale. La crisi dell'economia reale americana ha aperto le porte allo spettro della disoccupazione anche e soprattutto per gli immigrati latini, che fino ad oggi con le loro rimesse hanno contribuito sostanzialmente alla crescita del Pil dei rispettivi paesi di origine. L'impossibilità di mantenersi nella terra del fast food e generare al tempo stesso un reddito sufficiente per inviare risparmi a casa li ha convinti ad intraprendere la strada all'inverso. Un dato preoccupante per il Messico, per cui le rimesse negli ultimi anni hanno rappresentato la seconda entrata del paese, dopo il petrolio.
Durango è uno dei paesi della federazione con il più alto tasso di immigrazione: si stima che circa il 30% della popolazione economicamente attiva viva attualmente negli USA. Di solito il ritorno in patria coincide con il raggiungimento del benessere economico, in questo caso parliamo di una misura di emergenza: tra essere disoccupati a Chicago e essere disoccupati a Durango, meglio Durango. Dove la vita costa meno, la gente è sempre sorridente, non vieni trattato da cittadino di seconda mano e nell'informalità si trova sempre un modo per potersi arrangiare. Solo che nel tempo gli standard di vita mantenuti dalle rimesse calano, i posti di lavoro che Città del Messico promette di creare attraverso le grandi opere pubbliche non sono comunque sufficienti per assorbire i nuovi flussi in entrata e cresce in modo preoccupante il tasso di criminalità dovuto, secondo studi dell'Università locale, proprio alla mancanza di occupazione. Dati alla mano, forse le luci Natalizie di Durango appaiono in un certo senso meno luminose, ma per i messicani le nuvole oscure che si ammassano all'orizzonte non sono mai un buon motivo per non festeggiare. Il presente è ciò che conta e nel presente, seppur incerto, !que viva Mexico! Con un di pazienza la locomotiva americana si rimetterà in moto e comincerà ad emergere con ancora più chiarezza che i posti vacanti lasciati dagli emigrati tornati in patria sono un costo insostenibile per un paese che ha l'ambizione di continuare a crescere. Intanto i ladinos emigrati in Italia sembrano immuni all’austerità europea, obbedendo alla lettera all’incitamento del primo ministro dello stato che li ospita: consumano, riempiendo bagagli a mano straripanti e gonfi. Con buona pace di chi attende pazientemente in fila la possibilità di raggiungere il proprio posto, incastrato tra il cicaleccio di due simpatiche signore messicane e lo spazio ingombrato dai loro vistosissimi regali di Natale.

Fonte foto: Messico, novembre 2008 letiziajp ©

giovedì, novembre 13, 2008

L'epoca delle passioni tristi

La fiducia è una cosa importante. E fra tutte, la fiducia nel futuro è l'unico motore in grado di alimentare la vita, renderla diversa dal mero sopravvivere. C'è stata un'epoca in cui tutto era possibile, l'avvenire carico di promesse, la strada dell'umanità pavimentata col cemento solido di un progresso inevitabile. Gramsci diceva che bisogna essere pessimisti con la ragione e ottimisti con la volontà. Forse voleva dire che nella vita occorre pragmatismo e che a vedere il mondo solo rosa si cade nello stesso errore del bianco e nero, l'illusione che sia possibile definire la complessità con un solo colore.
Pensavamo che avremmo potuto risolvere qualsiasi cosa "non ancora conosciuta" soltato rendendola intelleggibile, trovando il teorema alla base del dubbio. Per questo il futuro era speranza, perchè in esso si celavano, ai nostri occhi, tutte le risposte ai problemi del presente. Ma quando ci siamo resi conto che la guerra è ancora un evento possibile, che la ricerca medica non ha trovato rimedi sicuri contro le piaghe del nostro secolo, che siamo ancora oggi in balia dell'ignoto, dell'imprevedibile, abbiamo perso quell'ingenuo equilibrio che ci tendeva proiettati verso un futuro sicuramente migliore. Da quell'altezza non potevamo che farci male. Oggi l'individuo è inserito in un contesto di costante precarietà, dove il modello pregnante dell'homo oeconomicus lo spinge a misurare il proprio grado di successo solo in termini di forza, di capacità di emergere anche - e nonostante - a scapito degli altri. All'ottimismo verso il futuro si sostituisce uno stato di perenne emergenza . E' questo il fattore scatenante delle passioni tristi che Miguel Benasayag e Gerard Schmit passano al lumicino, cercando di dimostrare in un libro fino e accessibile, che la ragione profonda di tanta tristezza non è il sintomo di una patologia diffusa, ma piuttosto la reazione inevitabile alle regole economicistiche su cui si basa la nostra società. La forza rappresenta una tale ossessione che libero diventa colui che domina, il suo tempo, il suo ambiente, le sue relazioni, gli altri. Il mito della società dell'individuo, "ci fa credere che tutto quello che ci accade potrebbe essere diverso e ognuno di noi potrebbe essere un altro". Se questa è l'impostazione, è chiaro che qualsisi tentativo di staccarci da noi stessi per emulare un modello ci insinua dentro un senso di irrimediabile tristezza, "perchè negare ciò che siamo non ci rende altri, ci rende soltanto più impotenti". La ricetta per uscirne? Non necessariamente facendo dello psichiatra il nostro punto di riferimento, come accade oggi in paesi insospettabili come l'Argentina, che ha il maggior numero di psicologi per abitante - uno ogni 1000 - più piscologi che sportelli bancari insomma. Nell'immediato sarebbe sufficiente invertire la tendenza e coltivare passioni gioiose, efficaci per fagocitare quel sottofondo di perenne tristezza che ci fa vivere il mondo come un'ingestibile minaccia. Consapevoli di non essere soli. I legami con gli altri non sono un vincolo alla libertà, ma piuttosto la radice che ci tiene ancorati al mondo e nel farci parte di esso, dà un senso credibile alla nostra esistenza.

martedì, novembre 11, 2008

Cartoline per Natale

Nasce in Inghilterra The Big Picture – il grande disegno – cooperativa che commercializza le opere d’arte create dai bambini di strada di diverse parti del mondo. Secondo le Nazioni Unite, i bambini di strada nel mondo sono oggi 100 milioni e lo stato di abbandono in cui si trovano a vivere li rende più vulnerabili all’insorgere di problemi psicofisici, abusi sessuali, dipendenza da droghe e propensione a cadere nel vortice della criminalità. Da parte sua, la cooperativa rifornisce di materiali e finanziamenti le organizzazioni partner che lavorano con bambini di strada. I bambini usano il materiale per produrre lavori artistici che poi vengono venduti dalla Big Picture tramite il proprio web site. Dall’altro lato, le organizzazioni che collaborano al progetto ricevono dalla cooperativa anticipi mensili per realizzare i lavori e ulteriori fondi in base al fatturato. I disegni sono poi incorniciati da dei detenuti che lavorano nella cooperativa per cicli di quattro settimane, come parte del proprio programma di riabilitazione. Durante tutto il periodo i detenuti vengono totalmente integrati nella cooperativa e hanno voce in capitolo sulle scelte aziendali, ricevono formazione sulla storia, valori e principi del Movimento Cooperativo e hanno la possibilità di sperimentare una modalità di lavoro autenticamente democratico. La speranza della Big Picture è che una volta scontata la pena, i detenuti possano reinventarsi una vita all’interno del settore cooperativo.
Voglia di contribuire, senza rinunciare a un regalo originale? Il sito web della Big Picture è ricco di stampe e disegni che possono essere acquistati direttamente on-line e usati come biglietti natalizi o come carte da visita per imprese che vogliono investire in attività di responsabilità sociale. Il ricavato dalla vendita delle opere dei bambini viene equamente suddiviso tra la cooperativa e i partner stranieri, per il momento organizzazioni che lavorano in Messico, Swaziland e India.

sabato, novembre 01, 2008

Relativamente, a volte

Ogni tanto viaggio e sto via a lungo. Non so mai quando sarà la prossima partenza, quanto durerà, le persone che incontrerò. E' come vivere sospesi, ma bene, con curiosità, con attesa. L'ultima volta, tra un giro e l'altro, è durata tre settimane. Su e giù per il Messico, dai saloni soffusi e ovattati del Congresso di un piccolo stato, su a nord, alle baracche umili ma fieramente dignitose di una comunità che ancora oggi lotta - rischiando, per inerzia, di dimenticare perchè - per mantenere la sua identità. Viaggio, insomma, con la passione del viaggiare. Poi torno e ogni volta ho la sensazione di essere stata sempre lì, ma con qualcosa dentro in più, a premere, a iniettarmi dentro quella droga del ripartire ancora. Anche l'Italia è cambiata in questi anni, i suoi colori, i suoi odori intendo. I miei vicini di casa sono indiani e ogni volta che salgo le scale, sul pianerottolo, mi assale il profumo dolce e pungente di piatti lontanissimi epenso che non ci vuole niente, a volte, a portarsi dietro la propria casa. L'altro giorno, appena rientrati dal Messico, la mamma indiana mi ferma per le scale esclamando: "Alisha (non ha mai imparao il mio nome, ho lasciato fare...), tantissimo che non vedo te, dove andata?". Sono stata via per lavoro - faccio io - in Messico. "Messico??" fa lei sgranando gli occhioni. Poi deve averci pensato su, credendo di aver capito e con tutto il trasporto che ti dà l'empatia aggiunge "perchè Messico, non esserci più lavoro in Italia per te?".
Non esserci più lavoro in Italia per me...come glielo spiego che il mio lavoro in Italia prevede proprio che io me ne vada in giro per l'America Latina, che il mio viaggio non è imposto, come il suo, che in India ci ha lasciato genitori e un figlio e la prospettiva di rivederli è tra due anni perchè il volo da qui a là costa una fortuna? Ho pensato di spiegarglielo ma poi ci siamo guardate, lì sulle scale, con il passo di entrambe già per metà altrove. La libertà è un concetto relativo e io non ho trovato le parole.

venerdì, ottobre 31, 2008

Società Aperta

Ho sempre pensato che l’ingrediente fondamentale di un buon programma TV fosse prima di tutto un buon presentatore. Eppure, nonostante preferissi di gran lunga la pinguedine acuta di Giuliano Ferrara, Otto e Mezzo continua ad essere un bel programma di approfondimento, a prescindere dal restiling imposto dai primi piani civettuoli delle pose sbilenche della Gruber.
L’altra sera il programma era incentrato sul rapporto tra Chiesa e Islam alla vigilia dell'apertura del Forum cattolico musulmano. Dopo un primo tumulto iniziale di noi e voi, Samir Khalil Samir docente all'Università Saint Joseph, in collegamento da Beirut, ha preso timidamente la parola con un commento che non m’aspettavo. Non cito testualmente, ma suonava più o meno cosi: “voi italiani dovreste smetterla di discutere se togliere o meno il crocifisso, fare o meno il presepe, ammettere o meno il velo nelle scuole. Avete le vostre leggi, fate in modo che siano uguali per tutti e non smontabili caso per caso a seconda degli influssi esterni. Dovreste prima di tutto essere orgogliosi della vostra cultura e coerenti con essa. Le altre culture dovrebbero servire per arricchirvi non per creare confusione sociale”. Ovvero, non possiamo essere dei mediatori culturali, se non abbiamo chiaramente presente qual è la nostra identità, come possiamo dialogare con gli altri? Mi sento di condividere, al di là di qualsiasi convinzione velatamente buonista. Il punto è proprio qui, nel corpo molle dell’identità italiana.
Mi viene in mente un libro di Sartori che ho letto tempo fa, intitolato Pluralismo, Multiculturalismo ed estranei. Partiva dalla domanda “posto che una buona società non deve essere chiusa, quanto aperta può essere una società aperta?”. Secondo Sartori la società aperta coincide con una società pluralistica – contrapposta a quella multiculturale perché fondata sulla tolleranza e non sulla differenziazione a tutti i costi - una comunità nella quale i diversi e le loro diversità si rispettano e si fanno concessioni reciproche. Rendere cittadino chi si prende i beni-diritti soggettivi, ma non si sente tenuto in cambio a contribuire alla loro produzione, è creare un cittadino “differenziato” che rischia di balcanizzare la città pluralistica. Il che equivale a dire che “il muticulturalismo crea identità rafforzate…configurando lo spezzettamento della comunità pluralistica in sottoinsiemi di comunità chiuse e disomogenee”. Il saggio di Sartori è complesso, ma il pensiero di fondo è che l’armonia di una società pluralistica sta nell’accettare la diversità che vive in essa, senza voler omogeneizzare in nome di un illuminato melting pot. Perché se nell’accettazione di culture “altre” non c’è reciprocità - ma piuttosto rifiuto della nostra – il gioco non è a somma zero. Essere tolleranti non vuol dire negare se stessi, perché la tolleranza non esalta l’altro e l’alterità: li accetta…Nell’essere tolleranti verso gli altri ci aspettiamo a nostra volta di essere tollerati. Purtroppo per la nostra società, che si vuole multiculturale, non sempre funziona cosi.

mercoledì, ottobre 29, 2008

appunti calligrafici

Dove sto andando? – si domandò
Il vento sfogliava le pagine spesse di un giornale locale, con colori lucidi tra le dita callose dell’uomo di fronte, sgualciti come parole sbavate. C’era calma, nonostante il rumore del traffico di sottofondo. Sbattere di posate appena lucidate, tintinnio di bicchieri, pochi avventori data l’ora e un silenzio ispessito da conversazioni sussurrate a metà. La semplicità di una farfalla che svolazzava tra i fiori di un cespuglio curato da poco, l’odore di erba giovane tosata, di escrementi di cani sciolti, di margherite gialle inclinate storte verso un sole finalmente primaverile. Si nasconde una qualche consapevolezza dietro l’accortezza di mani che avvicinano la tazza fumante al viso, sorseggiando piano un caffè da due lire? Vita semplice, in assenza di metafore, l’ombra di un moscerino che incide un solco breve sulla pagina che stava scrivendo, come il viaggio di un aeroplano, una traccia o un cammino. Notò che non aveva più nulla da dire. Forse le parole sarebbero uscite sotto altra forma, come la coscienza che argina il flusso per non lasciarsi sopraffare dal vuoto, per navigare nell’unico tratto di mare calmo, il silenzio. L’unica regola da seguire sarebbe comunque stata la rigorosità, l’accortezza nella descrizione dell’esistenza umana, che esclude la banalità da ogni riflessione. L’inutilità di alcune osservazioni ti lasciano inerte. Voleva in fondo quello che tutti vogliono, sentirsi conforme con le pieghe quotidiane dell’esistenza. Intanto i bambini di strada - figli delle strade di Baires dal 2002 - trascinavano la loro povertà tra i tavoli, mentre gli avventori di mezzogiorno continuavano le loro conversazioni indispensabili e urgenti, come se la vita non fosse di fatto solo un perpetuo altrove.

lunedì, ottobre 27, 2008

Terra, lavoro e capitale interest free

Nella stessa giornata mi è capitato tra le mani più volte, un articolo di giornale, un amico che me ne parla, una rivista che lo mette in prima pagina. Non è ancora un fenomeno ma l'attualità a cui assistiamo inermi ne fa sicuramente una potenziale tendenza e allora ho deciso di rifletterci su. Si chiama Jak (terra, lavoro, capitale), è una banca cooperativa e nasce in Svezia, patria di molte altre trovate ecologiche e sostenibili. Questa volta la trovata è di natura finanziaria e non è una novità: la Jak Bank opera informalmente dal 1965, opera su tutto il territorio svedese e nel 1997 è stata riconosciuta come banca dall'autorità di vigilanza nazionale. Ad essere rivoluzionaria - rispetto al comune sentire - è piuttosto la filosofia che c'è dietro: il credito non deve generare interesse. Concetto molto vicino a quello promosso dalla "finanza islamica", l'idea dei fondatori della Jak è che qualsiasi tipo di speculazione non può essere sostenibile nel lungo periodo, a maggior ragione la speculazione sul denaro, monito amaro in un'epoca che sta assistendo all'implosione dei credo universalmente accettati dell'alta finanza. Il sistema promosso dalla Jak si fonda sull'assenza di interesse nei servizi di raccolta e d'impiego: i soci della banca possono accedere ai prestiti in proporzione al risparmio accumulato - punti di risparmio - su cui pagano una commissione complessiva che serve esclusivamente a ripagare la banca dei costi sostenuti per il servizio (intorno al 2.5% fisso). Il sistema può presentare delle criticità nel momento in cui si passa da microprestiti a crediti di più alto ammontare, tenendo in considerazione che il risparmio obbligatorio è comunque non remunerato e se immobilizzato per lungo periodo, in condizioni di alta inflazione, può portare all'erosione del proprio capitale. Tuttavia, come tutti gli strumenti fuori dal comune, il sistema difeso da Jak per tutti questi anni lancia dei segnali che oggi più che mai risultano appetibili - socialmente parlando....Nel maggio 2008, pochi mesi prima dello scoppio della crisi finanziaria, l'esperienza della Jak Bank diventava protagonista su Rai 3 di una puntata di Report. Da lì il tam tam è stato immediato, tanto che a settembre di quest'anno nasceva formalmente Jak bank Italia, un'associazione culturale con sede a Firenze che si propone di lavorare sulle orme della banca cooperativa svedese per arrivare presto a una Jak bank anche in Italia. Sarà - culturalmente - fattibile nel belpaese? In Italia esistono 449 banche di credito cooperativo, una Banca Etica e una neonata rete di istituzioni di microfinanza che a vario titolo si muovono nel microcosmo di famiglie italiane che pur in crescente difficoltà non hanno ancora raggiunto i livelli di indebitamento del resto d'Europa (fino a poco tempo fa venivamo considerati arretrati per questo, oggi sembra averci salvato - per il momento - dal tracollo finanziario) . Un microcosmo complesso, in bilico tra il bancario e il sociale, che pur ricercando una logica nella contraddizzione apparente tra beneficio sociale e profitto, non rinuncia alla ricerca di un utile annuale, elemento in molti casi essenziale per rendere l'istituzione forte e sostenibile. Il caso della Jak Bank può essere applicabile su larga scala, lo dimostrano i suoi 35.000 soci, alcuni anche fuori confine e può effettivamente contaminare positivamente la società: un effetto trickle-down virtuoso dove il costo più basso dei prestiti ricevuti da un produttore si riversano sul consumatore sotto forma di prodotti meno costosi. Ma c'è qualcosa in questo meccanismo che continua a non convincermi...la sua replicabilità in ogni caso, intendo. Per essere veramente efficace dovrebbe essere in grado di sostenere il tessuto produttivo senza vincolare le imprese - strutturalmente bisognose di circolante - al risparmio obbligatorio. Ma in tal caso chi è disposto a risparmiare al loro posto a costo zero? E se una o più imprese in un momento di crisi non sono più in grado di restituire, come si mantiene in piedi il sistema se non ha accumulato riserve sufficienti? Forse la risposta è culturale, figlia di una società nordeuropea culturalmente diversa dall'Italia latina in cui viviamo. Da noi esperienze simili si chiamano MAG (mutue auto gestione) o GAS (gruppi di acquisto solidale), sono dimensionalmente limitate e le condizioni proposte volontaristiche, difficilemente sostenibili come modello su larga scala. Però...esistono anche esperienze di nicchia, che fanno della banca uno "strumento al servizio", veicolando il rispamio di cittadini consapevoli ed informati verso attività imprenditoriali meritevoli, ma prive di accesso al credito. Ancora una volta sono idee di frontiera, goegraficamente parlando. Una di queste è Ethical Banking, il servizio di finanza reposabile della cassa rurale di Bolzano. Vale sempre la pena informarsi, equivale a regalarsi la possibilità di scegliere.
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