martedì, luglio 25, 2006

LE PAGLIUZZE NEGLI OCCHI DEI GIGANTI...

William Easterly, 'The White Man's Burden - Why the West's efforts to aid the rest have done so much ill and so little good' (Il fardello dell'uomo bianco - Perché i tentativi dell'Occidente di aiutare il resto del mondo hanno prodotto così tanto male e così poco bene).
"L'Occidente ha già speso 2.300 miliardi di dollari per gli aiuti umanitari negli ultimi cinquant'anni, e ancora non è riuscito a far avere a tutti i bambini medicine dal costo di 12 centesimi per prevenire le morti per malaria. L'Occidente ha speso 2.300 miliardi e non è ancora riuscito a far avere reti per il letto dal costo di 4 dollari alle famiglie povere. L'Occidente ha speso 2.300 miliardi e non è ancora riuscito a far avere alle madri tre dollari a testa per prevenire la morte di cinque milioni di bambini. E' una tragedia che così tanta compassione non porti neanche questi risultati minimi per chi ne avrebbe bisogno". A dirlo è W. Easterly, professore alla New York University e per 16 anni 'reseach economist' della Banca Mondiale. Il libro non l'ho ancora letto, ma anche volendo glissare sul titolo, il sottotitolo è inequivocabile, per non parlare del putiferio di polemiche in casa ONU che tale prof. ha scatenato con la sua azzardata pubblicazione. Come sparare sulla croce rossa? Mah...è che a volte anche i giganti dovrebbero avere l'umiltà di piegarsi di fronte ai loro limiti e al proposito riporto la brillante conclusione di Pablo Ayo, giornalista del New Time Magazine che cita Eastely nel suo articolo, dicendo: "Forse, prima di dare il via a qualche altra discutibile ‘Missione di Pace’ sponsorizzata dall’ONU, allo scopo di sgombrare il campo da pericolosi “Stati Canaglia”, gli Stati Uniti dovrebbero cercare di togliere dall’occhio dell’aquila americana la biblica trave. Alle pagliuzze altrui, come è sempre stato, baderà chi ha ancora gli occhi per vedere come stanno realmente le cose".

CHE MISURA PER LA FELICITA'?

A Londra - e dove se non lì..?- è nata la NEF (New Economy Fundation) , un gruppo d'opinione indipendente che crede "in un'economia che funziona come se la gente e l'ambiente contassero davvero". Il suo lavoro consiste infatti nella promozione di alternative innovative ai classici misuratori economici (come il Pil), capaci di analizzare da un'altra angolatura - più precisa ed esaustiva - concetti quali 'progresso' o 'ricchezza/povertà' della nazioni. L'ultima iniziativa della NEF è l'Happy Planet Index , un Indice a dir poco orginale che mette a confronto le risorse utilizzate da un dato Paese con l'aspettativa di vita e la felicità dei suoi abitanti. L'auspicio della NEF è che l'Hpi mostri ai governi di tutto il mondo come aggiustare le proprie politiche di sviluppo, rispetto agli indicatori e agli obiettivi di progresso.(Fonte della news: Anna!!!)

Se vi restano ancora dei dubbi provate a vedere che posto occupa l'Italia nella classifica della felicità...eh già...

lunedì, luglio 24, 2006

UN INDOVINO MI DISSE

Nella primavera del 1976, a Hong Kong, un vecchio indovino cinese avverte Tiziano Terzani: «Attento! Nel 1993 corri un gran rischio di morire. In quell'anno non volare. Non volare mai».
Arrivato il 1993, è più l’intuizione del giornalista che la superstizione dell’uomo a fargli prendere la decisione di non prendere davvero più aerei, senza per questo rinunciare al suo mestiere di corrispondente. Per 13 emozionantissimi mesi, sposandosi in treno, in nave, in macchina e a volte anche a piedi, Terzani attraversa le strade di un’Asia inedita, che no solo gli apre gli occhi sulla vera natura di quel viaggio, ma ci fa anche pensare alla nostra quasi sempre monca versione di viaggiatori. “Spostarsi non è stato più questione di ore ma di giorni, di settimane. Per non fare errori, prima di mettermi in viaggio, ho dovuto guardare bene le carte, rimettermi a studiare la geografia. Le montagne sono tornate ad essere possibili ostacoli sul mio cammino e non più delle belle, irrilevanti rifiniture in un paesaggio visto da un oblò. Il viaggiare in treno o in nave, su grandi distanze, m’ha ridato il senso della vastità del mondo e soprattutto m’ha fatto riscoprire un’umanità, quella dei più, quella di cui uno, a forza di volare, dimentica quasi l’esistenza: l’umanità che si sposta carica di pacchi e di bambini, quella cui gli aerei e tutto il resto passano in ogni senso sopra la testa.” (Tiziano Terzani, Un indovino mi disse, pag. 12)

Ho scoperto questo libro, e Terzani, che avevo quasi vent’anni, tra gli scaffali della mia coinquilina all’università e sarà stata suggestione ma alla fine ho pensato che anche quello era un segno del destino. Sfogliare le sue pagine è entrare in Asia dalla porta sul retro, quelle porte piccole che ti permettono di avere accesso a tutti i dettagli di ciò che avviene sulla scena principale. Dell’Asia Terzani trasmette la maestosa diversità dei suoi infiniti componenti, il fascino e gli orrori della storia, la peculiarità del territorio e delle sue genti, con l’occhio del giornalista e il cuore di un viaggiatore. E allora bisogna leggere i suoi libri con la stessa attitudine con cui ci si appresta ad affrontare un nuovo viaggio, con tutta la curiosità di cui sono capaci due occhi ancora intonsi.

giovedì, luglio 20, 2006

I BELIEVE IN A BETTER WAY


BEN HARPER - 17 luglio, Arena di Verona

Catapultata nei gradoni più alti del surreale scenario dell'arena di Verona - che alle 9 di sera ancora sudava tutto il cocente calore del giorno - in totale sintonia con una folla entusiasta e compatta, il mio battesimo all'arena non poteva essere migliore...due ore dove si sono azzerati i sensi e tutto il resto, intorno e dentro, è stato solo musica...

martedì, luglio 18, 2006

MEDIO ORIENTE, GOOD NIGHT

Scende di nuovo la notte sul Medio Oriente, una notte che non è più intervallata da momenti di luce, come se per una parte piccolissima ma tanto importate del mondo fosse improvvisamente scomparso il sole e nessuno se ne fosse accorto. I fuochi fatui dei negoziati eterni si sono interrotti, in che momento esattamente nessuno può dirlo, è troppo tempo che la guerra sotterranea inquina i rapporti tra israeliani e palestinesi, difficile dire chi abbia sferrato il primo colpo, impossibile discernere ormai l’intreccio delicatissimo tra diritti e responsabilità.
Le testate di tutto il mondo che fino a pochi giorni fa esibivano a lettere cubitali l’ultimo atto coraggioso del condottiero d’Israele - il ritiro da Gaza benedetto dalla comunità internazionale e osteggiato fino alla fine dei coloni israeliani abbarbicati alle mura cadenti delle loro ex-case – oggi si ritrovano a cambiare il vocabolario della pace con i consueti vocaboli del conflitto: soldati rapiti, escalation, Nuovi raid sul Libano. Razzi sul Neghev…Le notizie hanno una data di scadenza che coincide con i tempi presenti della realtà, ed è per noi così difficile conservare la memoria delle origini che oggi ci troviamo ad osservare distratti il riaccendersi della miccia mediorientale, come se, al tracciare una linea tra gli alti e i bassi degli ultimi 50 anni di storia, il quadro che ne esca sia di guerra permanente e allora, perché stupirsi oggi se il fuoco sul quale Sharon aveva gettato un mucchietto di terra sta di nuovo avvampando alto e potente?
Eppure, se ci fermassimo per un attimo dal nostro sfrenato agire quotidiano, ci ricorderemmo quello che parole inflazionate come globalizzazione possono significare: il mondo che diventa paese grazie alla mente illuminata del progresso, non può più permettersi di ignorare quello che accade nella porta accanto. Eppure, lo spirito di conservazione ci spinge a vivere il nostro limitato contorno come se fosse il centro di un mondo che inizia e finisce nel giardino di casa. Dalla mia generazione in avanti si è persa la memoria della guerra, i sessant’anni ininterrotti di pace vissuti soprattutto dall’Italia - per fortuna risparmiata dagli attentati terroristici che hanno insanguinato i vicini europei - hanno seminato in noi un meccanismo di inconscia invulnerabilità, dando per scontato che il nostro privilegiato stile di vita sia un diritto ormai acquisito e che c’è sempre qualcuno, al di sopra di noi, capace di preservarlo intatto, difendendolo dalle ripercussioni improvvise degli avvenimenti esterni. E forse il nostro inconscio non si sbagliava poi tanto…

...Continua su Popolis

(Foto: Reuters, inviata da Chiara)

mercoledì, luglio 12, 2006

L'INFINITO



"(...) E come il vento odo stormir tra quelle piante, io quell'infinito silenzio a questa voce vo' comparando: e mi sovvien l'eterno, e le morte stagioni, e la presente e viva, e 'l suon di lei. Così tra questa infinità s'annega il pensier mio: e il naufragar m'è dolce in questo mare." (G.Leopardi, L'Infinito)

Foto: Monte Bianco, 3/7/06, Luigi e Ivan R. (grazie!!)

giovedì, luglio 06, 2006

CAPITALISMO...BIOLOGICO...?

Dopo aver tanto parlato di prodotti “geneticamente modificati”, quando ho letto le prime righe di questo articolo ho tirato un affrettato sospiro di sollievo, poi mi sono insospettita e alla fine della lettura mi è rimasto un solo punto di domanda: c’è rimasto da qualche parte nel mondo qualcosa di totalmente commestibile da ingurgitare? Lasciate perdere…domanda retorica…

Liberamente tratto da “When Wal-Mart Goes Organic”, by Michael Pollan, the New York Time Magazine, june 4, 2006. (Trasmesso, as usual, dalla mia inviata speciale Moki).

“Fino a qualche tempo fa mangiare ‘biologico’ era considerato un privilegio da élite, oggi non è più così, da quando Wal-Mart, la principale drogheria americana ha deciso di prendere il cibo biologico sul serio. A partire da quest’anno Wal-Mart prevede di immettere sul mercato tramite i suoi circa 4000 negozi, una selezione completa di alimenti organici. Ma il dato più significativo è che la compagnia ha assicurato che il prezzo di tali prodotti sarà superiore di un misero 10% rispetto al già economico prezzo delle controparti tradizionali. In questo modo prodotti biologici ad alto consumo, come i cereali, saranno presto alla portata dei 10 milioni di americani che fino ad ora non potevano permetterseli (e che in realtà non avevano neanche idea di cosa significasse il termine ‘organico’). Parlando in grande, per rispondere alla crescente domanda di Wal-Mart l’espansione delle coltivazioni biologiche sarà senza dubbio un beneficio per l’ambiente a livello globale, in quanto, da qualche parte, si tradurrà in una riduzione dell’uso di pesticidi e fertilizzanti: centinaia di ettari di mais non subiranno più la consueta doccia annuale di Atrazine, un potente erbicida applicato al 70% dei campi di mais americani. Tale agente chimico, recentemente bandito dall’Unione Europea, è sospettato di essere cancerogeno ed è stato ricollegato alla riduzione della fertilità tra gli agricoltori. (…)
Ma prima di brindare con un vaso di latte organico targato Wal-mart, bisognerebbe che ci ponessimo qualche domanda sul come tale impresa riesce a raggiungere i suoi lodevoli scopi. Assumendo che sia possibile, come esattamente Wal-Mart riesce a ridurre il prezzo dei suoi prodotti biologici a un livello solo del 10% superiore rispetto ai suoi prodotti tradizionali? Farlo garantirebbe virtualmente che la versione organica dei prodotti alimentari Wal-Mart non sia sostenibile, nel senso globale del termine. Abbiamo già visto cosa succede quando la logica dell’impresa agricola è applicata alla produzione biologica. Per rispondere a una domanda crescente di latte biologico a prezzo abbordabile, le compagnie agroalimentari stanno allestendo circa 5000 fattorie per la produzione del latte, spesso nel deserto. Quelle mucche da latte non toccheranno mai un filo d’erba, ma passeranno tutto il giorno a masticare mangime organico in spazi d’azione per forza di cose ristretti, mangimi che avranno effetti sia sulla salute delle mucche (questi ruminanti non sono forse nati per ruminare, appunto, erba?), che sul valore nutritivo del latte. Bhè, sicuramente vedremo latte così prodotto sempre più spesso sugli scaffali dei supermercati, una volta che Wal-Mart avrà deciso di mantenere basso il prezzo del latte organico. Ma vedremo anche sempre più latte organico prodotto in nuova Zelanda. La globalizzazione del cibo organico è già in atto: nei grandi magazzini Whole Foods si possono comprare asparagi organici dall’Argentina, frutti di bosco dal Messico, carne (nutrita ad erba) dalla Nuova Zelanda. In un’era di crisi energetica, l’acquisto di tali prodotti contribuisce poco all’idea di sostenibilità ambientale che un tempo animava il movimento del biologico. Questi alimenti potranno non contenere pesticidi, ma sono pur sempre, in via indiretta, intrisi di petrolio…Per concludere, un’ultima considerazione: quando Wal-Mart vorrà comprare i suoi prodotti biologici, si rivolgerà a chi gli fa il prezzo migliore, ovvero non ai produttori che possiamo avere in testa quando pronunciamo la parola ‘biologico’. I grandi supermercati vogliono fare affari solo con i grandi agricoltori, che producono molta quantità dello stesso prodotto, non perché siano più efficienti, ma piuttosto perché è più facile contrattare con un solo soggetto invece che con centinaia di piccoli produttori. Questa è solo una della tante forme in cui la logica del capitalismo e quella del biologico si scontrano. E, almeno nel breve periodo, quella del capitalismo di solito prevale. (…)
Speriamo allora che Wal-Mart riconosca che gli straordinari poteri di marketing evocati dalla parola ‘biologico’ equivalgono più o meno alla salute di un pollo organico allevato in stretto isolamento insieme a centinaia di altri polli organici, in una fattoria biologica, ingurgitando soltanto mais biologico: ovvero, fragile.”

Pubblicato anche su Popolis

martedì, luglio 04, 2006

BUON COMPLEANNO, CARO ANTONIO

Della lettera che mi hai mandato rendo collettiva solo la conclusione, per rispetto all'intimità delle tue riflessioni, e perchè condensa in poche righe tutte le mie imprecisate nostalgie. Nonostante ciò, ammetto di aver resistito a stento a pubblicare interamente i tuoi pensieri, che sento di condividere così tanto...sarà l'anima latinoamericana che inevitabilmente ci è rimasta intrappolata dentro? Buon compleanno, caro Antonio, con l'augurio di rivederci presto, in quel Sud che mi manca così tanto...

"Chiedo scusa per questa lettera tanto semplice, tanto poco intellettuale, e forse lunga, noiosa e inutile. In realtà non ho altre parole per esprimere quello che penso. Non ho altre parole per definire l’omogeneizzazione alla quale tutti siamo in qualche modo abituati. Possiamo vivere solo all’insegna della normalità. Tutto ciò che superi i limiti della normalità è considerato estraneo, alieno, pericoloso. Sembra che non esista nessuna alternativa che vivere nella normalità o in altre parole, seguire le stesse mode, vestire allo stesso modo, inseguire lo stesso tipo di felicità e lo stesso tipo di sorriso. Non è permesso essere tristi per più di un momento. L’unica maniera di sopravvivere è essere sempre allegri, svegli, pronti per affrontare la vita. Ho incontrato davvero poce persone, fino ad oggi, in questo Mondo, che sappiano accettare allo stesso modo la felicità e la tristezza, che di facciano carico allo stesso modo delle proprie vittorie e delle proprie sconfitte, che vivano serenamente la vita accettando sé stessi, come individui libri ed imperfetti. Così mi ritrovo qui, all’inizio della mia quarta decade, a brindare virtualmente con tutti voi che ho scelto perchè riceveste questa lettera, in nome della mia età, nonostante la quale ho deciso di continuare ad essere bambino, continuare ad essere sogantore, continuare ad indignarmi, a ridere ed a piangere, a lottare contro l’indifferenza. Mi ritrovo qui, ringraziandovi tutti per avermi permesso incrociare la vostra vita per lo meno per un istante. Dal Sud del Sud, Giugno 2005, Antonio"

lunedì, luglio 03, 2006

ISTAMBUL

"Parlo del buio serale che scende presto, dei padri che tornano a casa sotto i lampioni dei quartieri periferici, con un sacchetto in mano. Parlo dei librai anziani che, dopo una delle frequenti crisi economiche, aspettano tutto il giorno, tremando di freddo, un lettore; dei barbieri che si lamentano del calo della clientela; dei marinai che lavano i vecchi battelli del Bosforo, ancorati ai moli vuoti, sui quali si addormentano fra poco, e nel frattempo danno un’occhiata alla televisione piccola e lontana, in bianco e nero; dei bambini che giocano a pallone tra le auto sulle strade strette e lastricate; delle donne con le sciarpe in testa e i sacchetti di plastica in mano, che aspettano silenziosamente l’autobus nelle fermate di periferia; delle rimesse per le barche delle vecchie yali ; delle sale da tè piene zeppe di disoccupati; dei ruffiani che, pazienti, nelle sere d’estate, gironzolano su e giù per i marciapiedi sperando di trovare un turista ubriaco nella piazza più grande della città; della folla che, nelle sere d’inverno, corre per prendere in tempo il battello, delle donne che la sera, in attesa dei loro mariti, socchiudono le tende per dare un’occhiata fuori, dei vecchi col cappello che vendono piccoli libri, rosari e profumi nei cortili delle moschee; degli ingressi di decine di migliaia di palazzi simili tra loro, degli edifici di legno trasformati in uffici comunali che un tempo, quando erano ville private, avevano pavimenti di legno che scricchiolavano a ogni passo; delle altalene fuori uso nei parchi vuoti, delle sirene dei battelli che urlano nella nebbia, delle mura bizantine ormai in rovina; delle piazze dei mercati che si svuotano la sera, dei ruderi degli antichi conventi; di decine di migliaia di palazzi con facciate incolori per la sporcizia, la ruggine, la fuliggine e la polvere, dei gabbiani immobili sotto a pioggia sulle imbarcazioni piene di cozze e alghe; della folla di uomini che pescano dal ponte di Galata, delle sale fredde delle biblioteche; dei fotografi ambulanti, dell’odore delle sale cinematografiche, una volta famose e dai soffitti dorati,dove adesso gli uomini entrano di soppiatto per guardare film porno; dei viali dove col calar del sole non si può vedere neanche una donna, della folla ammassata nelle giornate di libeccio, calde e ventilate, davanti alla porta dei bordelli controllati dal Comune; delle donne in fila davanti ai punti vendita di carne scontata, della massa di persone che affolla gli autobus; delle moschee in cui vengono continuamente rubate le lastre di piombo e le grondaie, dei cimiteri che vivono nella città come un secondo mondo e dei cipressi; dei bambini che cercano di piazzare un pacchetto di fazzoletti di carta, degli orologi sulle torri, dove non guarda nessuno; delle vittorie ottomane che i bambini leggono sui libri di scuola e delle bastonate che prendono la sera a casa; dell’attesa timorosa degli “addetti” durante i frequenti coprifuochi, imposti con la scusa di un censimento demografico, o di una caccia ai terroristi; delle lettere pubblicate in minuscoli spazi di giornali, dei lettori che si lamentano della cupola della moschea di trecento anni del quartiere, che ormai sta cedendo, e si chiedono dove sia lo stato; di tutti i gradini rotti, in parti e forme differenti, dell’uomo che vende da quarant’anni, sempre nello stesso posto, cartoline; (…) dei tramonti che colorano le finestre, a Uskudar, di un arancione quasi scarlatto, delle sirene dei battelli che suonano improvvisamente tutte insieme, una volta l’anno, per un minuto di silenzio, quando l’intera città si ferma compita per ricordare Ataturk; delle ragazze che lavorano tutta la notte per uno stipendio da fame, a ripulire stanze piene zeppe di imbastitici e macchine per cucire bottoni, dove un tempo famiglie di classe media, dottori, avvocati e insegnanti con mogli e figli la sera ascoltavano la radio; del disordine e del degrado, delle cicogne di cui tutta la città si accorge verso l’autunno, mentre passano sopra il Bosforo e le isole, in arrivo dai Balcani, dall’Europa orientale e settentrionale, per andare a sud e delle folle di uomini della mia infanzia, che tornano a casa fumandosi una sigaretta dopo aver assistito a una delle partite di calcio della nazionale, sempre pesantemente sconfitta.
Quando percepiamo a fondo questo sentimento, e i paesaggi, gli angoli, le persone che lo trasmettono, quando ci cresciamo insieme, a un certo punto quella sensazione di tristezza, simile al vapore che comincia a muoversi sottile sulle acque dello stretto nelle fredde e assolate mattine d’inverno, acquista forme sempre più concrete ed evidenti." Orhan Pamuk Istambul