giovedì, novembre 13, 2008

L'epoca delle passioni tristi

La fiducia è una cosa importante. E fra tutte, la fiducia nel futuro è l'unico motore in grado di alimentare la vita, renderla diversa dal mero sopravvivere. C'è stata un'epoca in cui tutto era possibile, l'avvenire carico di promesse, la strada dell'umanità pavimentata col cemento solido di un progresso inevitabile. Gramsci diceva che bisogna essere pessimisti con la ragione e ottimisti con la volontà. Forse voleva dire che nella vita occorre pragmatismo e che a vedere il mondo solo rosa si cade nello stesso errore del bianco e nero, l'illusione che sia possibile definire la complessità con un solo colore.
Pensavamo che avremmo potuto risolvere qualsiasi cosa "non ancora conosciuta" soltato rendendola intelleggibile, trovando il teorema alla base del dubbio. Per questo il futuro era speranza, perchè in esso si celavano, ai nostri occhi, tutte le risposte ai problemi del presente. Ma quando ci siamo resi conto che la guerra è ancora un evento possibile, che la ricerca medica non ha trovato rimedi sicuri contro le piaghe del nostro secolo, che siamo ancora oggi in balia dell'ignoto, dell'imprevedibile, abbiamo perso quell'ingenuo equilibrio che ci tendeva proiettati verso un futuro sicuramente migliore. Da quell'altezza non potevamo che farci male. Oggi l'individuo è inserito in un contesto di costante precarietà, dove il modello pregnante dell'homo oeconomicus lo spinge a misurare il proprio grado di successo solo in termini di forza, di capacità di emergere anche - e nonostante - a scapito degli altri. All'ottimismo verso il futuro si sostituisce uno stato di perenne emergenza . E' questo il fattore scatenante delle passioni tristi che Miguel Benasayag e Gerard Schmit passano al lumicino, cercando di dimostrare in un libro fino e accessibile, che la ragione profonda di tanta tristezza non è il sintomo di una patologia diffusa, ma piuttosto la reazione inevitabile alle regole economicistiche su cui si basa la nostra società. La forza rappresenta una tale ossessione che libero diventa colui che domina, il suo tempo, il suo ambiente, le sue relazioni, gli altri. Il mito della società dell'individuo, "ci fa credere che tutto quello che ci accade potrebbe essere diverso e ognuno di noi potrebbe essere un altro". Se questa è l'impostazione, è chiaro che qualsisi tentativo di staccarci da noi stessi per emulare un modello ci insinua dentro un senso di irrimediabile tristezza, "perchè negare ciò che siamo non ci rende altri, ci rende soltanto più impotenti". La ricetta per uscirne? Non necessariamente facendo dello psichiatra il nostro punto di riferimento, come accade oggi in paesi insospettabili come l'Argentina, che ha il maggior numero di psicologi per abitante - uno ogni 1000 - più piscologi che sportelli bancari insomma. Nell'immediato sarebbe sufficiente invertire la tendenza e coltivare passioni gioiose, efficaci per fagocitare quel sottofondo di perenne tristezza che ci fa vivere il mondo come un'ingestibile minaccia. Consapevoli di non essere soli. I legami con gli altri non sono un vincolo alla libertà, ma piuttosto la radice che ci tiene ancorati al mondo e nel farci parte di esso, dà un senso credibile alla nostra esistenza.

martedì, novembre 11, 2008

Cartoline per Natale

Nasce in Inghilterra The Big Picture – il grande disegno – cooperativa che commercializza le opere d’arte create dai bambini di strada di diverse parti del mondo. Secondo le Nazioni Unite, i bambini di strada nel mondo sono oggi 100 milioni e lo stato di abbandono in cui si trovano a vivere li rende più vulnerabili all’insorgere di problemi psicofisici, abusi sessuali, dipendenza da droghe e propensione a cadere nel vortice della criminalità. Da parte sua, la cooperativa rifornisce di materiali e finanziamenti le organizzazioni partner che lavorano con bambini di strada. I bambini usano il materiale per produrre lavori artistici che poi vengono venduti dalla Big Picture tramite il proprio web site. Dall’altro lato, le organizzazioni che collaborano al progetto ricevono dalla cooperativa anticipi mensili per realizzare i lavori e ulteriori fondi in base al fatturato. I disegni sono poi incorniciati da dei detenuti che lavorano nella cooperativa per cicli di quattro settimane, come parte del proprio programma di riabilitazione. Durante tutto il periodo i detenuti vengono totalmente integrati nella cooperativa e hanno voce in capitolo sulle scelte aziendali, ricevono formazione sulla storia, valori e principi del Movimento Cooperativo e hanno la possibilità di sperimentare una modalità di lavoro autenticamente democratico. La speranza della Big Picture è che una volta scontata la pena, i detenuti possano reinventarsi una vita all’interno del settore cooperativo.
Voglia di contribuire, senza rinunciare a un regalo originale? Il sito web della Big Picture è ricco di stampe e disegni che possono essere acquistati direttamente on-line e usati come biglietti natalizi o come carte da visita per imprese che vogliono investire in attività di responsabilità sociale. Il ricavato dalla vendita delle opere dei bambini viene equamente suddiviso tra la cooperativa e i partner stranieri, per il momento organizzazioni che lavorano in Messico, Swaziland e India.

sabato, novembre 01, 2008

Relativamente, a volte

Ogni tanto viaggio e sto via a lungo. Non so mai quando sarà la prossima partenza, quanto durerà, le persone che incontrerò. E' come vivere sospesi, ma bene, con curiosità, con attesa. L'ultima volta, tra un giro e l'altro, è durata tre settimane. Su e giù per il Messico, dai saloni soffusi e ovattati del Congresso di un piccolo stato, su a nord, alle baracche umili ma fieramente dignitose di una comunità che ancora oggi lotta - rischiando, per inerzia, di dimenticare perchè - per mantenere la sua identità. Viaggio, insomma, con la passione del viaggiare. Poi torno e ogni volta ho la sensazione di essere stata sempre lì, ma con qualcosa dentro in più, a premere, a iniettarmi dentro quella droga del ripartire ancora. Anche l'Italia è cambiata in questi anni, i suoi colori, i suoi odori intendo. I miei vicini di casa sono indiani e ogni volta che salgo le scale, sul pianerottolo, mi assale il profumo dolce e pungente di piatti lontanissimi epenso che non ci vuole niente, a volte, a portarsi dietro la propria casa. L'altro giorno, appena rientrati dal Messico, la mamma indiana mi ferma per le scale esclamando: "Alisha (non ha mai imparao il mio nome, ho lasciato fare...), tantissimo che non vedo te, dove andata?". Sono stata via per lavoro - faccio io - in Messico. "Messico??" fa lei sgranando gli occhioni. Poi deve averci pensato su, credendo di aver capito e con tutto il trasporto che ti dà l'empatia aggiunge "perchè Messico, non esserci più lavoro in Italia per te?".
Non esserci più lavoro in Italia per me...come glielo spiego che il mio lavoro in Italia prevede proprio che io me ne vada in giro per l'America Latina, che il mio viaggio non è imposto, come il suo, che in India ci ha lasciato genitori e un figlio e la prospettiva di rivederli è tra due anni perchè il volo da qui a là costa una fortuna? Ho pensato di spiegarglielo ma poi ci siamo guardate, lì sulle scale, con il passo di entrambe già per metà altrove. La libertà è un concetto relativo e io non ho trovato le parole.