venerdì, ottobre 31, 2008

Società Aperta

Ho sempre pensato che l’ingrediente fondamentale di un buon programma TV fosse prima di tutto un buon presentatore. Eppure, nonostante preferissi di gran lunga la pinguedine acuta di Giuliano Ferrara, Otto e Mezzo continua ad essere un bel programma di approfondimento, a prescindere dal restiling imposto dai primi piani civettuoli delle pose sbilenche della Gruber.
L’altra sera il programma era incentrato sul rapporto tra Chiesa e Islam alla vigilia dell'apertura del Forum cattolico musulmano. Dopo un primo tumulto iniziale di noi e voi, Samir Khalil Samir docente all'Università Saint Joseph, in collegamento da Beirut, ha preso timidamente la parola con un commento che non m’aspettavo. Non cito testualmente, ma suonava più o meno cosi: “voi italiani dovreste smetterla di discutere se togliere o meno il crocifisso, fare o meno il presepe, ammettere o meno il velo nelle scuole. Avete le vostre leggi, fate in modo che siano uguali per tutti e non smontabili caso per caso a seconda degli influssi esterni. Dovreste prima di tutto essere orgogliosi della vostra cultura e coerenti con essa. Le altre culture dovrebbero servire per arricchirvi non per creare confusione sociale”. Ovvero, non possiamo essere dei mediatori culturali, se non abbiamo chiaramente presente qual è la nostra identità, come possiamo dialogare con gli altri? Mi sento di condividere, al di là di qualsiasi convinzione velatamente buonista. Il punto è proprio qui, nel corpo molle dell’identità italiana.
Mi viene in mente un libro di Sartori che ho letto tempo fa, intitolato Pluralismo, Multiculturalismo ed estranei. Partiva dalla domanda “posto che una buona società non deve essere chiusa, quanto aperta può essere una società aperta?”. Secondo Sartori la società aperta coincide con una società pluralistica – contrapposta a quella multiculturale perché fondata sulla tolleranza e non sulla differenziazione a tutti i costi - una comunità nella quale i diversi e le loro diversità si rispettano e si fanno concessioni reciproche. Rendere cittadino chi si prende i beni-diritti soggettivi, ma non si sente tenuto in cambio a contribuire alla loro produzione, è creare un cittadino “differenziato” che rischia di balcanizzare la città pluralistica. Il che equivale a dire che “il muticulturalismo crea identità rafforzate…configurando lo spezzettamento della comunità pluralistica in sottoinsiemi di comunità chiuse e disomogenee”. Il saggio di Sartori è complesso, ma il pensiero di fondo è che l’armonia di una società pluralistica sta nell’accettare la diversità che vive in essa, senza voler omogeneizzare in nome di un illuminato melting pot. Perché se nell’accettazione di culture “altre” non c’è reciprocità - ma piuttosto rifiuto della nostra – il gioco non è a somma zero. Essere tolleranti non vuol dire negare se stessi, perché la tolleranza non esalta l’altro e l’alterità: li accetta…Nell’essere tolleranti verso gli altri ci aspettiamo a nostra volta di essere tollerati. Purtroppo per la nostra società, che si vuole multiculturale, non sempre funziona cosi.

mercoledì, ottobre 29, 2008

appunti calligrafici

Dove sto andando? – si domandò
Il vento sfogliava le pagine spesse di un giornale locale, con colori lucidi tra le dita callose dell’uomo di fronte, sgualciti come parole sbavate. C’era calma, nonostante il rumore del traffico di sottofondo. Sbattere di posate appena lucidate, tintinnio di bicchieri, pochi avventori data l’ora e un silenzio ispessito da conversazioni sussurrate a metà. La semplicità di una farfalla che svolazzava tra i fiori di un cespuglio curato da poco, l’odore di erba giovane tosata, di escrementi di cani sciolti, di margherite gialle inclinate storte verso un sole finalmente primaverile. Si nasconde una qualche consapevolezza dietro l’accortezza di mani che avvicinano la tazza fumante al viso, sorseggiando piano un caffè da due lire? Vita semplice, in assenza di metafore, l’ombra di un moscerino che incide un solco breve sulla pagina che stava scrivendo, come il viaggio di un aeroplano, una traccia o un cammino. Notò che non aveva più nulla da dire. Forse le parole sarebbero uscite sotto altra forma, come la coscienza che argina il flusso per non lasciarsi sopraffare dal vuoto, per navigare nell’unico tratto di mare calmo, il silenzio. L’unica regola da seguire sarebbe comunque stata la rigorosità, l’accortezza nella descrizione dell’esistenza umana, che esclude la banalità da ogni riflessione. L’inutilità di alcune osservazioni ti lasciano inerte. Voleva in fondo quello che tutti vogliono, sentirsi conforme con le pieghe quotidiane dell’esistenza. Intanto i bambini di strada - figli delle strade di Baires dal 2002 - trascinavano la loro povertà tra i tavoli, mentre gli avventori di mezzogiorno continuavano le loro conversazioni indispensabili e urgenti, come se la vita non fosse di fatto solo un perpetuo altrove.

lunedì, ottobre 27, 2008

Terra, lavoro e capitale interest free

Nella stessa giornata mi è capitato tra le mani più volte, un articolo di giornale, un amico che me ne parla, una rivista che lo mette in prima pagina. Non è ancora un fenomeno ma l'attualità a cui assistiamo inermi ne fa sicuramente una potenziale tendenza e allora ho deciso di rifletterci su. Si chiama Jak (terra, lavoro, capitale), è una banca cooperativa e nasce in Svezia, patria di molte altre trovate ecologiche e sostenibili. Questa volta la trovata è di natura finanziaria e non è una novità: la Jak Bank opera informalmente dal 1965, opera su tutto il territorio svedese e nel 1997 è stata riconosciuta come banca dall'autorità di vigilanza nazionale. Ad essere rivoluzionaria - rispetto al comune sentire - è piuttosto la filosofia che c'è dietro: il credito non deve generare interesse. Concetto molto vicino a quello promosso dalla "finanza islamica", l'idea dei fondatori della Jak è che qualsiasi tipo di speculazione non può essere sostenibile nel lungo periodo, a maggior ragione la speculazione sul denaro, monito amaro in un'epoca che sta assistendo all'implosione dei credo universalmente accettati dell'alta finanza. Il sistema promosso dalla Jak si fonda sull'assenza di interesse nei servizi di raccolta e d'impiego: i soci della banca possono accedere ai prestiti in proporzione al risparmio accumulato - punti di risparmio - su cui pagano una commissione complessiva che serve esclusivamente a ripagare la banca dei costi sostenuti per il servizio (intorno al 2.5% fisso). Il sistema può presentare delle criticità nel momento in cui si passa da microprestiti a crediti di più alto ammontare, tenendo in considerazione che il risparmio obbligatorio è comunque non remunerato e se immobilizzato per lungo periodo, in condizioni di alta inflazione, può portare all'erosione del proprio capitale. Tuttavia, come tutti gli strumenti fuori dal comune, il sistema difeso da Jak per tutti questi anni lancia dei segnali che oggi più che mai risultano appetibili - socialmente parlando....Nel maggio 2008, pochi mesi prima dello scoppio della crisi finanziaria, l'esperienza della Jak Bank diventava protagonista su Rai 3 di una puntata di Report. Da lì il tam tam è stato immediato, tanto che a settembre di quest'anno nasceva formalmente Jak bank Italia, un'associazione culturale con sede a Firenze che si propone di lavorare sulle orme della banca cooperativa svedese per arrivare presto a una Jak bank anche in Italia. Sarà - culturalmente - fattibile nel belpaese? In Italia esistono 449 banche di credito cooperativo, una Banca Etica e una neonata rete di istituzioni di microfinanza che a vario titolo si muovono nel microcosmo di famiglie italiane che pur in crescente difficoltà non hanno ancora raggiunto i livelli di indebitamento del resto d'Europa (fino a poco tempo fa venivamo considerati arretrati per questo, oggi sembra averci salvato - per il momento - dal tracollo finanziario) . Un microcosmo complesso, in bilico tra il bancario e il sociale, che pur ricercando una logica nella contraddizzione apparente tra beneficio sociale e profitto, non rinuncia alla ricerca di un utile annuale, elemento in molti casi essenziale per rendere l'istituzione forte e sostenibile. Il caso della Jak Bank può essere applicabile su larga scala, lo dimostrano i suoi 35.000 soci, alcuni anche fuori confine e può effettivamente contaminare positivamente la società: un effetto trickle-down virtuoso dove il costo più basso dei prestiti ricevuti da un produttore si riversano sul consumatore sotto forma di prodotti meno costosi. Ma c'è qualcosa in questo meccanismo che continua a non convincermi...la sua replicabilità in ogni caso, intendo. Per essere veramente efficace dovrebbe essere in grado di sostenere il tessuto produttivo senza vincolare le imprese - strutturalmente bisognose di circolante - al risparmio obbligatorio. Ma in tal caso chi è disposto a risparmiare al loro posto a costo zero? E se una o più imprese in un momento di crisi non sono più in grado di restituire, come si mantiene in piedi il sistema se non ha accumulato riserve sufficienti? Forse la risposta è culturale, figlia di una società nordeuropea culturalmente diversa dall'Italia latina in cui viviamo. Da noi esperienze simili si chiamano MAG (mutue auto gestione) o GAS (gruppi di acquisto solidale), sono dimensionalmente limitate e le condizioni proposte volontaristiche, difficilemente sostenibili come modello su larga scala. Però...esistono anche esperienze di nicchia, che fanno della banca uno "strumento al servizio", veicolando il rispamio di cittadini consapevoli ed informati verso attività imprenditoriali meritevoli, ma prive di accesso al credito. Ancora una volta sono idee di frontiera, goegraficamente parlando. Una di queste è Ethical Banking, il servizio di finanza reposabile della cassa rurale di Bolzano. Vale sempre la pena informarsi, equivale a regalarsi la possibilità di scegliere.
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giovedì, ottobre 23, 2008

Una Rete per l'eccelenza nazionale

Esistono dei giovani in Italia che non hanno smesso di credere alla potenza delle idee che nascono tra una birra e l'altra degli anni dell'università. Me ne ricordo tanti di progetti così - bizzarri, sconclusionati ma cosi importanti per "fare atterrare" quelle formule astratte e fumose dei libri che tutti siamo stati costretti a digerire... - progetti forti, progetti spesso abortiti prima ancora di uscire dal locale. Tra tanti, ce n'è uno che invece ha preso piede, poco a poco, grazie alla passione e alla dedizione di pochi giovani testardi, che non considerano poi cosi utopico poter cambiare l'Italia. E' cosi che è nata RENA - una rete per l'eccellenza nazionale - "spazio dove si incontrano, si conoscono, e sviluppano progetti comuni un giornalista del Financial Times, un neurologo, un imprenditore del settore delle telecomunicazioni, una sociologa dell’organizzazione, un architetto, un funzionario della Commissione europea, un pubblicitario, una ricercatrice sui temi dell’immigrazione, un assessore del Comune di Ancona, un tenente della Difesa, un progettista di impianti chimici, un docente di diritto urbanistico, e altre decine di italiani come loro".
Molti di loro li ho conosciuti tra i banchi dell'università. Le idee non sono solo bolle di speculazione astratta. A volte scoppiano e la contaminazione che ne deriva è tanto impercettibile quanto potente. Visti gli obiettivi che si propone, il miglior augurio che si può fare alla RENA è di riuscire a contaminare, in maniera irreversibile, il nostro paese.
Per saperne di più, visitate: RENA

martedì, ottobre 14, 2008

Le jour où le Mexique fut privé de tortillas...

Qualche tempo fa scriveva Anne Vigna, su Le Monde Diplomatique , che "entré en vigueur il y a quatorze ans, l'accord de libre-échange nord américain a eu des effets dévastateurs sur l'agriculture du Mexique. Les productions américaines (subventionnées) ont inondé ce pays et ruiné des millions de petits paysans". La prima volta che sono andata in Messico la stampa locale salutava con giubilo l'apertura totale del commercio con gli altri due giganti del NAFTA (USA e Canada) avvenuta nel gennaio del 2008, sostenendo che avrebbe permesso al Messico di aumentare ulteriormente la produzione di mais, grazie soprattutto alla domanda crescente per la produzione di etanolo. Cosi, mentre alla frontiera tra Messico e Stati Uniti si inaspriscono filo spinato e controlli, il commercio tra i due paesi non è mai stato così libero di circolare. O almeno sulla carta. Perchè gli steccati, anche quelli economici, sono duri a cadere del tutto, soprattutto quando c'è in gioco la difesa dell'interesse nazionale. Ed è così che la nazione che più di tutte ha incarnato l'ideale di libertà, si permette delle licenze proprio nei confronti dei propri produttori: nonostante il NAFTA, i sussidi al'agricoltura ammontano in Messico a 700 US$/produttore, ma negli Stati Uniti gli US$ sono 21.000. Cosi, mentre il potere giudiziario americano si prodigava per imporre una serie di embargo ai prodotti messicani in entrata, il Messico diventava dipendente dalla produzione di mais degli Stati Uniti , sovvenzionata e quindi paradossalmente meno costosa della produzione interna. Durante l'ultimo viaggio, solo pochi giorni fa, ho voluto quindi approfondire. Il mio unico interlocutore, per molti giorni, è stato un funzionario governativo, onesto ma per sua natura...diplomatico. Mi ha detto che si, potrebbe andare meglio, il campo messicano sta soffrendo di una crisi seria, prima di tutto perchè l'apertura del commercio con i vicini più a nord non è stata a suo tempo accompagnata da seri investimenti in formazione, miglioramento della produzione e certificazioni di qualità. Inoltre l'abbandono quasi totale dei sussidi non è stato a sua volta compensato da un accesso al credito per il settore agricolo, che si è trovato quindi solo e inevitabilmente impreparato di fronte all'apertura delle frontiere doganali. Ultimamente il governo messicano - o meglio, a discrezione, i singoli stati che compongono la federazione - ha cercato di ovviare alle debolezze dei propri produttori, inventando programmi pubblici a finanziamento del settore. Risorse comunque limitate, di difficile accesso, che sostituiscono un'attenta politica di promozione dell'efficienza con una toppa pubblica di stampo velatamente paternalista. Alcuni stati, più lungimiranti, si stanno ingegnando nella ricerca di più illuminate alternative, vedendo nelle cooperative di credito un possibile strumento di sviluppo dal basso, più efficace perchè alternativo allo Stato, più efficiente perchè basato su una logica di imprenditoriale reciprocità.
Intanto rifletto sull'ironia di una situazione in cui un kilo di mais riesce a passare la frontiera off limits di Sonora con molta più facilità - e comodità - di un qualsiasi cittadino messicano. Del resto, a cosa serve la liberalizzazione del commercio se poi non si traduce in un reale progresso di tutti gli Stati che vi partecipano? Per i motivi di cui sopra, e per alcuni altri, il NAFTA non si è tradotto per il Messico in uno strumento capace di creare posti di lavoro. Anzi, nel caso dell'agricoltura li ha addirittura distrutti e anche nel terziario, dopo l'entrata della Cina nel WTO, l'orizzonte non è roseo. Di cosa vivono dunque i Messicani? Paradossalmente, il bene d'esportazione più redditizio per il Messico è attualmente....l'uomo. Un terzo della popolazione messicana dipende dal sostegno finanziario dei parenti emigrati negli Stati Uniti, flussi di rimesse che nel 2006 hanno raggiunto i 23 miliardi di dollari. E' banale, ma finchè non si creeranno alternative credibili e durature in loco, gli Stati Uniti non potranno pensare di arginare il flusso di immigrazione clandestina che giornalmente mette alla prova le sue frontiere, e il Messico non potrà investire le risorse generate dall'immigrazione e dal commercio in azioni di sviluppo per la propria popolazione...
Gli ultimi giorni li abbiamo passati in una comunità indigena Tepehuana dello Stato di Durango, una delle tante rappresentanti dell'incredibile varietà etnica di questo meraviglioso, contraddittorio, ricchissimo paese. Niente energia elettrica, niente telefono, niente Internet, niente strade asfaltate. Soltanto distese interminabili di fiori rosa punteggiate di bambini e baracche. Un paradiso fatto però di povertà. La gente senza tutti questi "beni materiali" vive più serena? No, è semplicemente più fatalista. L'alcolismo è un problema ancora forte in queste comunità, così come l'analfabetismo e, negli ultimi anni, l'obesità. Rigoberta Menchù, pacifista guatemalteca, nobel per la pace, diceva: "c'è a chi tocca dare il proprio sangue e c'è a chi tocca dare le proprie forze; perciò, finchè possiamo, diamo forza". Il Messico è oggi considerata la 12° potenza economica al mondo, la 2° d'America Latina, uno dei maggiori produttori di petrolio, partner commerciale delle economie più avanzate. I suoi cittadini stanno già "dando forza", ma per almeno il 70% di loro sono briciole quelle che tornano indietro. Fino a quando immigrare sarà l'unica alternativa possibile, cosa può essergli chiesto di dare ancora?
Fonte foto: Messico, ottobre 2008 letiziajp ©

venerdì, ottobre 03, 2008

Caminante no hay camino...

Caminante, son tus huellas
el camino y nada más;
caminante, no hay camino,
se hace camino al andar.

Al andar se hace camino
y al volver la vista atrás
se ve la senda que nunca
se ha de volver a pisar.
Caminante, no hay camino
sino estelas en el mar…

Todo pasa y todo queda,
pero lo nuestro es pasar,
pasar haciendo caminos,
caminos sobre el mar.

Antonio Machado