mercoledì, gennaio 30, 2008

Parabeni

Cosa sono? Non sostanze metafisiche, nè stupefacenti, nulla a che fare col bene comune, anzi. I parabeni hanno preso cittadinanza nella mia quotidianità da quando me ne ha parlato la mia amica Monica, che da anni lavora a Bruxelles per la Health and Environment Alliance, un'associazione europea che si occupa della diffusione di sapere e informazione sul rapporto virtuoso tra salute ed ambiente. Da allora li cerco ovunque, per evitarli. Mi è sembrato importante condividerne il perchè, ecco cosa dice la Moki al rispetto:

"Sui parabens (che ho scoperto in italiano chiamarsi "parabeni") in poche parole, si tratta di conservanti utilizzati per lo più in prodotti cosmetici e farmaceutici come shampoo, dentifricio , schiuma da barba, deodoranti e anche come additivi alimentari. Ne esistono diverse versioni ma la sostanza non cambia: methylparaben (E number E218), ethylparaben (E214), propylparaben (E216) e butylparaben. Secondo vari studi, i parabens interferiscono con le funzioni ormonali del nostro corpo e possono essere quindi tra le cause o concause del cancro al seno. Questi studi sono controversi, e fortemente contestati soprattutto dall'industria cosmetica e farmaceutica che li usa da anni...se cerchi "parabens" su wikipedia ti renderai conto che anche la scienza non è concorde su questo tema. Provare i legami e le connessioni tra agenti ambientali (come le sostanze chimiche insutriali) non è facile, i rapportidi causa-effetto non sono mai lineari anche perchè siamo esposti a una molteplicità di fattori, con tempistiche diverse e il nostro corpo reagisce in modi diversi. Mentre la ricerca prosegue il suo corso, le prove che vengono raccolte dovrebbero spingere ad un atteggiamento sempre più precauzionale riguardo l'utilizzo dei parabeni. E invece, come mai, nel dubbio, le autorità competenti permettono ancora che circoli in commercio una crema per il viso o un deodorante che potrebbe aumentare il rischio di prenderci il cancro? ".

Non è che vogliamo pensare male, ma proprio perchè la questione è ancora così incerta e controversa, la domanda diventa sospetto. Sono solo piccole gocce d'informazione, ma valeva la pena sollevare l'interrogativo. Vi abbiamo incuriosito? O forse...inquietato? Se volete saperne di più: - Cosmetic Database; - Breast Cancer Fund; - Health and Environment Alliance

mercoledì, gennaio 23, 2008

Quanto contano le prime impressioni?

Prendiamo ad esempio Barcellona.
Prima di partire ho ricevuto fiumi di commenti entusiastici di chi c'era stato, di chi sognava andarci, di chi ne aveva solo sentito parlare. Strabiliante. Poi, giusto il giorno prima, un commento ambiguo, detto con un tono che non prometteva nulla di buono: sembra Napoli. Mi è rimasto dentro come un tarlo, quel SembraNapoli e il suono sibilante associato alle parole, come a dargli una strisciata secca di definitività. Forse mi sono fatta suggestionare, ma la mia prima impressione di Barcellona è stata velata da quel borbottio di fondo, che me l'ha fatta vedere sporca e trasandata, un pò triste e un pò sola - come tutti i porti di mare - sotto la superficie traslucida del suo infinito movimento.
Le prime impressioni, ti fregano ed è finita. Come Buenos Aires, che per mesi mi ha sussurrato all'orecchio il suo attaccamento viscerale a origini principalmente italiane, tanto da farmele vedere ovunque, nei modi di fare, nei palazzi, negli squarci di periferia. E non era vero niente, la lingua madre in fondo non inganna mai. Parlano spagnolo, altro che lunfardo, e adesso che l'ho vista mi rendo conto di come la Spagna riemerga prepotente in tutti i profili di Buenos Aires.
Barcellona è tanto bianco-nera di giorno quanto accesa e folle la notte. Bar ovunque popolati di gente a tutte le ore - anche le più piccole - locali alla moda, locali malfamati, eventi, spettacoli, teatrini di strada, concerti, e fiumi, letteralmente fiumi di persone che a partire dalle ventuno cominciano a restituire la vita alle strade, sonnacchiose e lente fino al calare del sole.
Sarà che vivo in pianura padana e posso anche farmi suggestionare da tanta notturna vitalità , ma il fenomeno va oltre il semplice divertimento giovanile. E' infuso nella cultura, negli usi popolari, è la gente vera a vivere di notte, di giorno mi guardo in torno e scopro solo facce come la mia, col bollino turista stampato in fronte. Cammini per Barcellona dopo l'orario che in provincia di Brescia sarebbe definito "coprifuoco", e incontri anziani con la busta della spesa, mamme con passeggino, bambini in fila indiana, giovani a branchi, gente di mezza età che pascola senza fretta in cerca di un posto libero per cenare (meglio dopo mezzanotte). Le impressioni rimbalzano all'indietro, ancora strabiliante.
Quattro giorni di immersione totale nella guida, di chilometri percorsi a piedi, zigzagando tra i quartieri del porto - quelli scuri e stetti e poco rassicuranti - un'avventura finita presto in bicicletta - ho bucato - una sistemazione alla buona in un ostello del centro, a contatto con polvere e multiculturalità - immancabili italiani ovunque. Tutti ingredienti insufficienti a farmi un'idea.
Ma una sensazione mi resta ancora abbastanza addosso: le palme mediterranee scosse da un vento forte, costante, che rincorre impietoso anche dentro i vicoli più stretti; le architetture spiritate e gonfie dei palazzi di Gaudì; l'Aquarium con lo squalo che non può mai smettere di nuotare; la statua di Cristoforo Colombo col dito ferroso e fisso impettito sull'orizzonte; la sporcizia e l'abbandono di interi pezzi di città - città, come Genova e Marsiglia, città porto di mare - i viali timidi di giorno e brulicanti di notte, vivi di giocolieri, trapezisti e immigrati del nord Africa che vendono lattine di birra al pezzo e anche altro, sottovoce. Tutti questi elementi scolpiscono nella mia mente l'immagine di una Barcellona incompiuta, in continua ricomposizione. Nella migliore tradizione del suo archittetto più celebre e celebrato, che con la Sagrada Familia aveva in mente una visione talmente geniale e complicata del sacro, che a distanza di un secolo è ancora lì, cantiere a cielo aperto, in attesa che il miracolo si compia e l'umana fatica - o finanziamenti ingenti - la portino finalmente a compimento. Del resto il nome completo dell'opera, in catalano suona come Tempio espiatorio della Sacra Famiglia e la targa che indica le date di costruzione dice più o meno così:
"1882 - (1926) - ??" L'ingresso costa 8 € e l'incasso è devoluto a finire i lavori. Turisti responsabili, ho contribuito a completare una pietra della mia Barcelona in movimento. Alla fine, tutto torna.

Barcellona 10-14 gennaio 2007
Foto: letiziajp ©

giovedì, gennaio 10, 2008

A scuola di TanGo

La scuola Regina di via Malta 12, a Brescia, riapre i battenti con le nuove proposte di tango argentino per il 2008, rivolte sia ai ballerini più esperti, sia a tutti quelli che vogliono provare a muovere i "primi passi" nella disciplina.
Il Tango argentino, nato più di un secolo fa nelle periferie buie e popolose di Buenos Aires, deve la sua duttilità universale a un'origine meticcia, frutto dell'incontro tra etnie e culture provenienti da tutto il mondo, che nella prima capitale del melting pot trovarono un loro fecondo momento di sintesi, nell'espressione corporea e passionale del ballo.
Negli ultimi anni il fenomeno del Tango ha assunto proporzioni e diffusione importanti anche in Italia, dove si moltiplicano i corsi, gli incontri con professonisti internazionali, i siti web, gli spettacoli d'alto livello e le reti sociali dedicate. Per capire come il Tango sia fermamente entrato nel nostro immaginario collettivo, basta pensare alle scelte di marketing delle aziende più disparate, che utilizzano la sensualità e il fascino del ballo per le loro campagne pubblicitarie a copertura nazionale.
Anche se le piroette e i virtuosismi che ci propongono può farlo sembrare una disciplina per pochi eletti, in realtà il Tango è una danza accessibile a tutti coloro che con curiosità vogliono dare spazio alla libera espressine del proprio corpo.
Con le parole dei due maestri della scuola Regina, Daniele e Roberta, "non esistono persone rigide nel Tango, ognuno può trovare il proprio stile. Il fine dell'apprendimento è portare l'allievo a pensare con il corpo, aiutarlo a scoprirne le regole, le resistenze e le possibilità, per aprirsi alla conoscenza e al dialogo con se e con l'altro". Provare per credere...

venerdì, gennaio 04, 2008

C'era una volta l'Agriasilo

Quando avevo circa dieci anni i miei genitori, seguendo uno spirito d'avventura all'epoca controcorrente, decisero di lasciare un paese ogni anno più caotico per trasferirsi in una casa di campagna, in collina, a pochi chilometri dal mare. Fu così che entrai nell'olimpo di quei fortunati bambini, destinati a vivere a stretto contatto con una natura benevola e ancora dignitosamente intatta.
Ma i miei genitori avevano anche un altro regalo in serbo per me: il tempo. Il loro tempo, dedicato ad insegnarmi a riconoscere una quercia, piantare bulbi di tulipani e piantine di insalata, avvolgere nei fogli di carta le bottiglie di pomodoro da far cuocere nel calderone nero, per assicurare un'ottima passata per tutto l'inverno. Imparai anche ad individuare nel boschetto le tane delle volpi - le volpi, ancora numerose, solo pochi anni fa - e con la calce bianca e dell'acqua fresca, rubare per sempre l'impronta di qualsiasi animale che passasse di lì.
Era il periodo in cui alle scuole elementari c'era solo una maestra, che diventava il punto di riferimento, la guida. Con lei in classe piantavamo i fagioli nel cotone, aspettando trepidanti che si compisse il miracolo del borlotto trasformato in filo d'erba. A casa avevo un pollaio con oche, galline e conigli, le casette con le api e anche una capretta. Grazie a loro ho vissuto dal vivo la nascita di un pulcino, la stagionatura di una forma di formaggio, il ciclo di vita dal polline al miele.
Una stagione ricca e fervida la mia infanzia, tanto da farmi sentire - forse a torto? - una privilegiata. Come fanno i bambini che vivono in città? O quelli i cui genitori lavorano tutto il giorno, quelli che vivono in appartamento o semplicemente tutti quelli che passano da casa a scuola e viceversa senza sperimentare mai, nemmeno per un attimo, il significato concreto del mondo che li circonda? Forse è anche a causa da questa lontananza dalla natura, dalla sperimentazione fisica del quotidiano, che, secondo l'OCSE, i giovani italiani sono tra i più ignoranti d'Europa?
Qualunque sia la risposta, c'è chi sta già pensando alle soluzioni migliori e più ingegnose per invertire la tendenza: da un'iniziativa della Coldiretti nascono in Italia gli Agriasili, delle fattorie alternative che affiancano all'attività agricola caratteristica, un utilissimo servizio di asilo infantile. Il primo agriasilo italiano - La Piemontesina - pare sia nato a Chiavasso, in provincia di Torino ed offre ai bambini ospiti la possibilità di seguire i lavori della campagna, accudire piccoli animali e osservare come crescono e producono le piante.
Come afferma la Coldiretti, "l'Agriasilo offre l'occasione di un incontro positivo tra le esigenze dei genitori di garantire un ambiente e un'alimentazione sana ai propri figli e quella delle imprenditrici e imprenditori agricoli alla ricerca di nuovi stimoli nel lavoro all'interno dell'azienda".
L'idea funziona, tanto che attualmente in Italia si stanno moltiplicando le esperienze di questo tipo, autentiche "alternative ecologiche" agli asili spesso angusti di città. Ma anche sperimentazioni capaci di aprire finestre importanti per un settore agricolo messo alle strette da un mercato mondiale non più così generoso. Che sia una formula creativa ed efficace per piantare semi di responsabilità sociale nei cittadini di domani?
Pubblicato anche su Popolis

giovedì, gennaio 03, 2008

Appostiamoci

"Poste Italiane è un innovativo e competitivo operatore di servizi finanziari e di pagamento. Ogni elemento interagisce con l'altro ed è funzionale a raggiungere e soddisfare le richieste del cliente. Onestà, trasparenza, correttezza, senso di responsabilità e affidabilità sono i valori che caratterizzano il Gruppo Poste Italiane e che guidano i comportamenti nelle relazioni interne e nei rapporti con l'esterno, generando fiducia e credibilità. Poste Italiane è un servizio pubblico con un'importante funzione sociale: il Servizio Universale. " (http://www.poste.it/)

La citazione non è tratta da un libro di fantascienza ma dal rispettabile sito della Poste Italiane. Ho selezionato le frasi più significative, quelle che più di ogni altra evocano nella memoria i momenti indimenticabili passati infilata in coda, in quel modo tutto italiano che hanno le code di disfarsi e sfaldarsi man mano che ci sia avvicina allo sportello. Della posta del paese dove abito conosco per inerzia ogni anfratto nei muri, la forma inflessibile dell'orologio, le cartoline di Natale e i francobolli col Papa, tutti amorevolmente appiccicati ai vetri di quegli sportelli perennemente in disuso, così da farli sembrare meno inesorabilmente vuoti alla trentina di persone che aspettano - sbruffando come balene - che si sia liberato l'unico operatore (innovativo e competitivo) disponibile. Appena varcata la porta del nostro ufficio postale, scatta dentro qualcosa di antropologicamente interessante: un certo senso di ineluttabilità misto a fatalismo, che al massimo trova sfogo in timidi tentativi di protesta esternati col tuo vicino, più per ingannare il tempo che per farsi davvero sentire.
Perchè, nonostante quello che vorrebbe raccontarci il sito delle Poste Italiane, il servizio, lungi dal generare fiducia e credibilità, ha generato nel pubblico la stessa umana reazione di molti altri servizi statali, che chiamereri piuttosto...spirito di sopravvivenza, che in alcuni rari casi sfocia in esasperazione. Nella maggioranza dei casi invece sopportiamo code interminabili, uffici sottodimensionati, impiegati isterici che se la prendono con noi e noi con loro, e usciamo da li carichi di un'energia negativa - capace di illuminare tutti i colossei d'Italia - che viene dispersa nelle ricadute inevitabili di una mattinata buttata via per pagare una bolletta. I seguaci di slow food potrebbero obiettare che la velocità è la vera malattia e potremmo utilizzare il tempo speso in piedi negli affidabili uffici postali per pensare a noi stessi, recitare una poesia, scambiare due chiacchiere col mondo. Una pratica tutta orientale della calma e della tolleranza che mi ha quasi convinto, finchè è entrato un indiano e si è lanciato in un sermone di lamenti, per il tempo che gli tocca perdere ogni volta che deve mandare due lire in India (per non parlare che adesso le poste sono addette ai rinnovi dei permessi di soggiorno....amen). Neanche in India gli capitava di aspettare tanto? Incredibile, quanti pregiudizi, quanti stereotipi incondizionati!
Forse dovremmo ringraziarle le Poste Italiane, per questa ginnastica forzata all'attesa a cui ci hanno addomesticato. Il servizio pubblico che riesce nell'impresa di educare alla pazienza, alla docilità, un cittadino pienamente consapevole che i servizi che gli offre lo Stato (offre? ma non servivano a questo le tasse...?) sono un disastro insensato (davvero cosi difficile da sanare?) di inefficienza e mediocrità, ma continua ad usarli senza opporre eccessiva resistenza. La sottomissione, ecco la vera rivoluzione sociale dei nostrani servizi universali.

Io come Alice

Se non sai dove stai andando, qualunque strada ti ci porterà


Lewis Carroll