venerdì, ottobre 31, 2008

Società Aperta

Ho sempre pensato che l’ingrediente fondamentale di un buon programma TV fosse prima di tutto un buon presentatore. Eppure, nonostante preferissi di gran lunga la pinguedine acuta di Giuliano Ferrara, Otto e Mezzo continua ad essere un bel programma di approfondimento, a prescindere dal restiling imposto dai primi piani civettuoli delle pose sbilenche della Gruber.
L’altra sera il programma era incentrato sul rapporto tra Chiesa e Islam alla vigilia dell'apertura del Forum cattolico musulmano. Dopo un primo tumulto iniziale di noi e voi, Samir Khalil Samir docente all'Università Saint Joseph, in collegamento da Beirut, ha preso timidamente la parola con un commento che non m’aspettavo. Non cito testualmente, ma suonava più o meno cosi: “voi italiani dovreste smetterla di discutere se togliere o meno il crocifisso, fare o meno il presepe, ammettere o meno il velo nelle scuole. Avete le vostre leggi, fate in modo che siano uguali per tutti e non smontabili caso per caso a seconda degli influssi esterni. Dovreste prima di tutto essere orgogliosi della vostra cultura e coerenti con essa. Le altre culture dovrebbero servire per arricchirvi non per creare confusione sociale”. Ovvero, non possiamo essere dei mediatori culturali, se non abbiamo chiaramente presente qual è la nostra identità, come possiamo dialogare con gli altri? Mi sento di condividere, al di là di qualsiasi convinzione velatamente buonista. Il punto è proprio qui, nel corpo molle dell’identità italiana.
Mi viene in mente un libro di Sartori che ho letto tempo fa, intitolato Pluralismo, Multiculturalismo ed estranei. Partiva dalla domanda “posto che una buona società non deve essere chiusa, quanto aperta può essere una società aperta?”. Secondo Sartori la società aperta coincide con una società pluralistica – contrapposta a quella multiculturale perché fondata sulla tolleranza e non sulla differenziazione a tutti i costi - una comunità nella quale i diversi e le loro diversità si rispettano e si fanno concessioni reciproche. Rendere cittadino chi si prende i beni-diritti soggettivi, ma non si sente tenuto in cambio a contribuire alla loro produzione, è creare un cittadino “differenziato” che rischia di balcanizzare la città pluralistica. Il che equivale a dire che “il muticulturalismo crea identità rafforzate…configurando lo spezzettamento della comunità pluralistica in sottoinsiemi di comunità chiuse e disomogenee”. Il saggio di Sartori è complesso, ma il pensiero di fondo è che l’armonia di una società pluralistica sta nell’accettare la diversità che vive in essa, senza voler omogeneizzare in nome di un illuminato melting pot. Perché se nell’accettazione di culture “altre” non c’è reciprocità - ma piuttosto rifiuto della nostra – il gioco non è a somma zero. Essere tolleranti non vuol dire negare se stessi, perché la tolleranza non esalta l’altro e l’alterità: li accetta…Nell’essere tolleranti verso gli altri ci aspettiamo a nostra volta di essere tollerati. Purtroppo per la nostra società, che si vuole multiculturale, non sempre funziona cosi.

mercoledì, ottobre 29, 2008

appunti calligrafici

Dove sto andando? – si domandò
Il vento sfogliava le pagine spesse di un giornale locale, con colori lucidi tra le dita callose dell’uomo di fronte, sgualciti come parole sbavate. C’era calma, nonostante il rumore del traffico di sottofondo. Sbattere di posate appena lucidate, tintinnio di bicchieri, pochi avventori data l’ora e un silenzio ispessito da conversazioni sussurrate a metà. La semplicità di una farfalla che svolazzava tra i fiori di un cespuglio curato da poco, l’odore di erba giovane tosata, di escrementi di cani sciolti, di margherite gialle inclinate storte verso un sole finalmente primaverile. Si nasconde una qualche consapevolezza dietro l’accortezza di mani che avvicinano la tazza fumante al viso, sorseggiando piano un caffè da due lire? Vita semplice, in assenza di metafore, l’ombra di un moscerino che incide un solco breve sulla pagina che stava scrivendo, come il viaggio di un aeroplano, una traccia o un cammino. Notò che non aveva più nulla da dire. Forse le parole sarebbero uscite sotto altra forma, come la coscienza che argina il flusso per non lasciarsi sopraffare dal vuoto, per navigare nell’unico tratto di mare calmo, il silenzio. L’unica regola da seguire sarebbe comunque stata la rigorosità, l’accortezza nella descrizione dell’esistenza umana, che esclude la banalità da ogni riflessione. L’inutilità di alcune osservazioni ti lasciano inerte. Voleva in fondo quello che tutti vogliono, sentirsi conforme con le pieghe quotidiane dell’esistenza. Intanto i bambini di strada - figli delle strade di Baires dal 2002 - trascinavano la loro povertà tra i tavoli, mentre gli avventori di mezzogiorno continuavano le loro conversazioni indispensabili e urgenti, come se la vita non fosse di fatto solo un perpetuo altrove.

lunedì, ottobre 27, 2008

Terra, lavoro e capitale interest free

Nella stessa giornata mi è capitato tra le mani più volte, un articolo di giornale, un amico che me ne parla, una rivista che lo mette in prima pagina. Non è ancora un fenomeno ma l'attualità a cui assistiamo inermi ne fa sicuramente una potenziale tendenza e allora ho deciso di rifletterci su. Si chiama Jak (terra, lavoro, capitale), è una banca cooperativa e nasce in Svezia, patria di molte altre trovate ecologiche e sostenibili. Questa volta la trovata è di natura finanziaria e non è una novità: la Jak Bank opera informalmente dal 1965, opera su tutto il territorio svedese e nel 1997 è stata riconosciuta come banca dall'autorità di vigilanza nazionale. Ad essere rivoluzionaria - rispetto al comune sentire - è piuttosto la filosofia che c'è dietro: il credito non deve generare interesse. Concetto molto vicino a quello promosso dalla "finanza islamica", l'idea dei fondatori della Jak è che qualsiasi tipo di speculazione non può essere sostenibile nel lungo periodo, a maggior ragione la speculazione sul denaro, monito amaro in un'epoca che sta assistendo all'implosione dei credo universalmente accettati dell'alta finanza. Il sistema promosso dalla Jak si fonda sull'assenza di interesse nei servizi di raccolta e d'impiego: i soci della banca possono accedere ai prestiti in proporzione al risparmio accumulato - punti di risparmio - su cui pagano una commissione complessiva che serve esclusivamente a ripagare la banca dei costi sostenuti per il servizio (intorno al 2.5% fisso). Il sistema può presentare delle criticità nel momento in cui si passa da microprestiti a crediti di più alto ammontare, tenendo in considerazione che il risparmio obbligatorio è comunque non remunerato e se immobilizzato per lungo periodo, in condizioni di alta inflazione, può portare all'erosione del proprio capitale. Tuttavia, come tutti gli strumenti fuori dal comune, il sistema difeso da Jak per tutti questi anni lancia dei segnali che oggi più che mai risultano appetibili - socialmente parlando....Nel maggio 2008, pochi mesi prima dello scoppio della crisi finanziaria, l'esperienza della Jak Bank diventava protagonista su Rai 3 di una puntata di Report. Da lì il tam tam è stato immediato, tanto che a settembre di quest'anno nasceva formalmente Jak bank Italia, un'associazione culturale con sede a Firenze che si propone di lavorare sulle orme della banca cooperativa svedese per arrivare presto a una Jak bank anche in Italia. Sarà - culturalmente - fattibile nel belpaese? In Italia esistono 449 banche di credito cooperativo, una Banca Etica e una neonata rete di istituzioni di microfinanza che a vario titolo si muovono nel microcosmo di famiglie italiane che pur in crescente difficoltà non hanno ancora raggiunto i livelli di indebitamento del resto d'Europa (fino a poco tempo fa venivamo considerati arretrati per questo, oggi sembra averci salvato - per il momento - dal tracollo finanziario) . Un microcosmo complesso, in bilico tra il bancario e il sociale, che pur ricercando una logica nella contraddizzione apparente tra beneficio sociale e profitto, non rinuncia alla ricerca di un utile annuale, elemento in molti casi essenziale per rendere l'istituzione forte e sostenibile. Il caso della Jak Bank può essere applicabile su larga scala, lo dimostrano i suoi 35.000 soci, alcuni anche fuori confine e può effettivamente contaminare positivamente la società: un effetto trickle-down virtuoso dove il costo più basso dei prestiti ricevuti da un produttore si riversano sul consumatore sotto forma di prodotti meno costosi. Ma c'è qualcosa in questo meccanismo che continua a non convincermi...la sua replicabilità in ogni caso, intendo. Per essere veramente efficace dovrebbe essere in grado di sostenere il tessuto produttivo senza vincolare le imprese - strutturalmente bisognose di circolante - al risparmio obbligatorio. Ma in tal caso chi è disposto a risparmiare al loro posto a costo zero? E se una o più imprese in un momento di crisi non sono più in grado di restituire, come si mantiene in piedi il sistema se non ha accumulato riserve sufficienti? Forse la risposta è culturale, figlia di una società nordeuropea culturalmente diversa dall'Italia latina in cui viviamo. Da noi esperienze simili si chiamano MAG (mutue auto gestione) o GAS (gruppi di acquisto solidale), sono dimensionalmente limitate e le condizioni proposte volontaristiche, difficilemente sostenibili come modello su larga scala. Però...esistono anche esperienze di nicchia, che fanno della banca uno "strumento al servizio", veicolando il rispamio di cittadini consapevoli ed informati verso attività imprenditoriali meritevoli, ma prive di accesso al credito. Ancora una volta sono idee di frontiera, goegraficamente parlando. Una di queste è Ethical Banking, il servizio di finanza reposabile della cassa rurale di Bolzano. Vale sempre la pena informarsi, equivale a regalarsi la possibilità di scegliere.
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giovedì, ottobre 23, 2008

Una Rete per l'eccelenza nazionale

Esistono dei giovani in Italia che non hanno smesso di credere alla potenza delle idee che nascono tra una birra e l'altra degli anni dell'università. Me ne ricordo tanti di progetti così - bizzarri, sconclusionati ma cosi importanti per "fare atterrare" quelle formule astratte e fumose dei libri che tutti siamo stati costretti a digerire... - progetti forti, progetti spesso abortiti prima ancora di uscire dal locale. Tra tanti, ce n'è uno che invece ha preso piede, poco a poco, grazie alla passione e alla dedizione di pochi giovani testardi, che non considerano poi cosi utopico poter cambiare l'Italia. E' cosi che è nata RENA - una rete per l'eccellenza nazionale - "spazio dove si incontrano, si conoscono, e sviluppano progetti comuni un giornalista del Financial Times, un neurologo, un imprenditore del settore delle telecomunicazioni, una sociologa dell’organizzazione, un architetto, un funzionario della Commissione europea, un pubblicitario, una ricercatrice sui temi dell’immigrazione, un assessore del Comune di Ancona, un tenente della Difesa, un progettista di impianti chimici, un docente di diritto urbanistico, e altre decine di italiani come loro".
Molti di loro li ho conosciuti tra i banchi dell'università. Le idee non sono solo bolle di speculazione astratta. A volte scoppiano e la contaminazione che ne deriva è tanto impercettibile quanto potente. Visti gli obiettivi che si propone, il miglior augurio che si può fare alla RENA è di riuscire a contaminare, in maniera irreversibile, il nostro paese.
Per saperne di più, visitate: RENA

martedì, ottobre 14, 2008

Le jour où le Mexique fut privé de tortillas...

Qualche tempo fa scriveva Anne Vigna, su Le Monde Diplomatique , che "entré en vigueur il y a quatorze ans, l'accord de libre-échange nord américain a eu des effets dévastateurs sur l'agriculture du Mexique. Les productions américaines (subventionnées) ont inondé ce pays et ruiné des millions de petits paysans". La prima volta che sono andata in Messico la stampa locale salutava con giubilo l'apertura totale del commercio con gli altri due giganti del NAFTA (USA e Canada) avvenuta nel gennaio del 2008, sostenendo che avrebbe permesso al Messico di aumentare ulteriormente la produzione di mais, grazie soprattutto alla domanda crescente per la produzione di etanolo. Cosi, mentre alla frontiera tra Messico e Stati Uniti si inaspriscono filo spinato e controlli, il commercio tra i due paesi non è mai stato così libero di circolare. O almeno sulla carta. Perchè gli steccati, anche quelli economici, sono duri a cadere del tutto, soprattutto quando c'è in gioco la difesa dell'interesse nazionale. Ed è così che la nazione che più di tutte ha incarnato l'ideale di libertà, si permette delle licenze proprio nei confronti dei propri produttori: nonostante il NAFTA, i sussidi al'agricoltura ammontano in Messico a 700 US$/produttore, ma negli Stati Uniti gli US$ sono 21.000. Cosi, mentre il potere giudiziario americano si prodigava per imporre una serie di embargo ai prodotti messicani in entrata, il Messico diventava dipendente dalla produzione di mais degli Stati Uniti , sovvenzionata e quindi paradossalmente meno costosa della produzione interna. Durante l'ultimo viaggio, solo pochi giorni fa, ho voluto quindi approfondire. Il mio unico interlocutore, per molti giorni, è stato un funzionario governativo, onesto ma per sua natura...diplomatico. Mi ha detto che si, potrebbe andare meglio, il campo messicano sta soffrendo di una crisi seria, prima di tutto perchè l'apertura del commercio con i vicini più a nord non è stata a suo tempo accompagnata da seri investimenti in formazione, miglioramento della produzione e certificazioni di qualità. Inoltre l'abbandono quasi totale dei sussidi non è stato a sua volta compensato da un accesso al credito per il settore agricolo, che si è trovato quindi solo e inevitabilmente impreparato di fronte all'apertura delle frontiere doganali. Ultimamente il governo messicano - o meglio, a discrezione, i singoli stati che compongono la federazione - ha cercato di ovviare alle debolezze dei propri produttori, inventando programmi pubblici a finanziamento del settore. Risorse comunque limitate, di difficile accesso, che sostituiscono un'attenta politica di promozione dell'efficienza con una toppa pubblica di stampo velatamente paternalista. Alcuni stati, più lungimiranti, si stanno ingegnando nella ricerca di più illuminate alternative, vedendo nelle cooperative di credito un possibile strumento di sviluppo dal basso, più efficace perchè alternativo allo Stato, più efficiente perchè basato su una logica di imprenditoriale reciprocità.
Intanto rifletto sull'ironia di una situazione in cui un kilo di mais riesce a passare la frontiera off limits di Sonora con molta più facilità - e comodità - di un qualsiasi cittadino messicano. Del resto, a cosa serve la liberalizzazione del commercio se poi non si traduce in un reale progresso di tutti gli Stati che vi partecipano? Per i motivi di cui sopra, e per alcuni altri, il NAFTA non si è tradotto per il Messico in uno strumento capace di creare posti di lavoro. Anzi, nel caso dell'agricoltura li ha addirittura distrutti e anche nel terziario, dopo l'entrata della Cina nel WTO, l'orizzonte non è roseo. Di cosa vivono dunque i Messicani? Paradossalmente, il bene d'esportazione più redditizio per il Messico è attualmente....l'uomo. Un terzo della popolazione messicana dipende dal sostegno finanziario dei parenti emigrati negli Stati Uniti, flussi di rimesse che nel 2006 hanno raggiunto i 23 miliardi di dollari. E' banale, ma finchè non si creeranno alternative credibili e durature in loco, gli Stati Uniti non potranno pensare di arginare il flusso di immigrazione clandestina che giornalmente mette alla prova le sue frontiere, e il Messico non potrà investire le risorse generate dall'immigrazione e dal commercio in azioni di sviluppo per la propria popolazione...
Gli ultimi giorni li abbiamo passati in una comunità indigena Tepehuana dello Stato di Durango, una delle tante rappresentanti dell'incredibile varietà etnica di questo meraviglioso, contraddittorio, ricchissimo paese. Niente energia elettrica, niente telefono, niente Internet, niente strade asfaltate. Soltanto distese interminabili di fiori rosa punteggiate di bambini e baracche. Un paradiso fatto però di povertà. La gente senza tutti questi "beni materiali" vive più serena? No, è semplicemente più fatalista. L'alcolismo è un problema ancora forte in queste comunità, così come l'analfabetismo e, negli ultimi anni, l'obesità. Rigoberta Menchù, pacifista guatemalteca, nobel per la pace, diceva: "c'è a chi tocca dare il proprio sangue e c'è a chi tocca dare le proprie forze; perciò, finchè possiamo, diamo forza". Il Messico è oggi considerata la 12° potenza economica al mondo, la 2° d'America Latina, uno dei maggiori produttori di petrolio, partner commerciale delle economie più avanzate. I suoi cittadini stanno già "dando forza", ma per almeno il 70% di loro sono briciole quelle che tornano indietro. Fino a quando immigrare sarà l'unica alternativa possibile, cosa può essergli chiesto di dare ancora?
Fonte foto: Messico, ottobre 2008 letiziajp ©

venerdì, ottobre 03, 2008

Caminante no hay camino...

Caminante, son tus huellas
el camino y nada más;
caminante, no hay camino,
se hace camino al andar.

Al andar se hace camino
y al volver la vista atrás
se ve la senda que nunca
se ha de volver a pisar.
Caminante, no hay camino
sino estelas en el mar…

Todo pasa y todo queda,
pero lo nuestro es pasar,
pasar haciendo caminos,
caminos sobre el mar.

Antonio Machado

lunedì, settembre 08, 2008

Il golfo dei poeti

"...veggo dall'alto fiammeggiar le stelle, cui di lontan fa specchio il mare...", cantava Leopardi perso nei versi della Ginestra. Parole dimenticate, che ho ritrovato incastonate in una lastra di marmo sulla parete di un sentiero a picco sul mare, a molti chilometri di distanza dalla terra natia del mio compaesano. Non ho ben capito cos'abbia a che vedere Leopardi con La Spezia, ma del resto, la location che ha voluto ricordare il poeta recanatese è più che azzeccata. Il Golfo dei Poeti, gomito di mare che si estende da Lerici a Portovenere - abbracciando tra due promontori spiagge, coste frastagliate, mare azzurro, antichi borghi e natura selvaggia - è stato amato e ricordato da poeti e scrittori come Shelley, Byron, Petrarca e Montale. E non faccio fatica a capire perchè. Quello di Portovenere è un mare che ispira, soprattutto se ci si arriva dall'alto, accompagnati da passi incerti, uliveti e natura aggrovigliata su 6 ore di sentiero a picco sul mare. La natura ha di stupefacente il fatto che ti permette di esserne parte e di osservare al tempo stesso, come dal di fuori, un didentro fatto di viottoli di terra battuta, barchette colorate, persone lontanissime, piccole e lente, che si muovono nei mercati come api assonnate, gente vip a bordo di barconi lussureggianti, che sfoggia un benessere sicuro ma mai sfacciato, protetto com'è dal contorno del mare. Portovenere è stato, da un certo punto di vista, un ritorno ad una realtà preconfezionata, dopo due giorni intensi passati a percorrere a piedi i cinque punti cardinali della bassa Liguria. Monterosso, Vernazza, Corniglia, Manarola e Riomaggiore, paesini con una manciata di case che abbracciano la parete di roccia a strapiombo sul mare, per gettarsi verso l'alto, sviluppando vicoli e vicoletti, insenature di pietra tra le case punteggiate di orti, ulivi, vigneti fitti e odore di pesce arrostito. Sarà stata la tranquillità del finire d'agosto, che ha rinfrescato le serate e riportato la gente del posto a riappropriarsi degli spazi invasi dai turisti d'alta stagione. Sarà stata la suggestione dei tramonti, dove dalla terrazza del nostro B&B guardavo ogni sera lo stupore di un sole sciogliersi nel mare, lasciando il posto a un fiammeggiar di stelle mai disturbato dall'inquinamento luminoso dei miei giorni cittadini. Sarà stato tutto quel cicaleccio d'anziani, che ogni sera trovava posto sulle panchine di pietra davanti al mare, discutendo animatamente in un dialetto incomprensibile e salutando con un gesto lento della mano ad ogni mio passaggio. Insomma, porto a casa la sensazione di un'Italia di cui andare orgogliosi. A metà strada tra il chianti e il sud della Francia, le cinque terre non sono il posto più economico dove passare le vacanze, ma sicuramente un rifugio ben protetto dove scappare in un week end fuori stagione, per riconciliarsi con il nostro paese. Cosi meschino a volte, cosi poco incline ad essere lodato dalla stampa internazionale, ma nonostante tutto ricco di tante piccole pietre preziose, che sta solo al nostro buon senso non vendere per pochi denari, ma salvaguardare. Per noi, per non perdere quegli angoli dove andare per riconciliarsi col mondo. Altrimenti il futuro è incerto, rischiamo di perdere delle radici che ci appartengono, per andare alla ricerca di un turismo preconfezionato. Di quelle partenze comode dove giri il mondo senza sapere dove sei stato, chiuso nel perimentro sicuro e circoscritto di un villaggio-vancaze. Il B&B che mi ha ospitato bisogna avere la pazienza di cercarselo su Internet e arrivarci a piedi da Manarola attraverso un sentiero di gradini che sale per circa mezz'ora negli uliveti. E' una faticaccia che si può evitare, il Comune ha messo a dispozione navette a basso impatto ambientale. Ma vi assicuro che la scarpinata vale la gentilezza della gente del posto, la terrazza luminosa a picco sul mare e una delle colazioni più dolci e più lente che riusciate ad immaginare. Eppure..chissà cos'ebbe il privilegio di vedere a Portovenere Lord Byron solo duecento anni fa..
Fonte foto: Cinque Terre, agosto 2008 letiziajp ©

mercoledì, agosto 20, 2008

La Montagna Sacra

"Se non sai renderti conto che dentro l'uomo c'è qualcosa che vuole accettare la sfida di questa montagna e che lo spinge ad affrontarla; che la lotta è la lotta stessa della vita per salire in alto, sempre più in alto, allora non sei in grado di comprendere perché noi andiamo a scalare. Ciò che riceviamo da questa avventura è gioia allo stato puro. E se tu poni la domanda, vuol dire che non puoi capire la risposta."

E' nato Kailash, un blog a me molto caro, che ha l'ambizione di ripercorrere con immagini e scrittura viaggi ai confini del mondo conosciuto, per permettere finalmente anche a chi è rimasto a casa, l'impagabile privilegio di assistere all'ascesa. Buon viaggio...

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giovedì, agosto 07, 2008

Posta celere

Tempo fa aspettavo un pacco. Mi avevano detto che me lo avrebbero mandato, un regalo, un paio di libri. Ma la certezza del suo arrivo non era tanto questa - poteva essere uno scherzo, una di quelle cose che si dicono tanto per dire..- quanto la telefonata di un corriere, che in un italiano strascicato aveva ripetuto più volte "come faccio ad arrivare a casa tua che nella carta non esiste?". Casa mia non esiste...me lo sono sentito ripetere più volte da altri postini come lui, troppo forestieri o forse solo troppo pigri per prendersi la briga di chiedere in giro. Come se per il solo fatto di abitare in piena campagna, in una stradina sterrata senza semafori e linee di demarcazione, sia una scusa sufficiente per spazzarmi via dall'elenco telefonico. Mi prese un'impazienza improvvisa quel giorno, un bisogno urgente di ricevere quel pacco che all'improvviso si materializzava nel mio immaginario come qualcosa di vivo e reale, in attesa di giungere finalmente a casa. Fu solo quando attaccai di malomodo la cornetta del telefono che mi resi conto di non aver dato al corriere nessuna indicazione, niente di niente, neanche il tempo di chiedergli dove recuperare il mio pacco se alla fine si fosse arreso di cercare in aperta campagna una casa senza campanello e senza nome. Panico. So di avere un dono in viaggio per me, dal contenuto imprecisato - libri? lettere? - e lo vedo allontanarsi poco a poco nella nebbia fitta delle missive perdute. Cosa succede quando un pacco non trova il suo destinatario? Torna indientro al mittente, continua a vagare per l'Italia, sballonzolato tra treni troppo lenti e mani appiccicose, finchè qualcuno non si stanca di timbrare e bollare e lui diventa improvvisamente.....orfano? Sono passati tre giorni da quella telefonata, tre interminabili giorni di trepida attesa, di sbirciate al portone, di orecchie tese, finchè non è arrivato stropicciato e lucido, oscillando come una foglia tra le mani scure di mio padre.E' stato proprio in quel momento, quando di colpo mi si è materializzato davanti, piccolo e malconcio, che mi sono resa conto che non era lui che aspettavo e forse neanche il suo contenuto. Quel pacco portava con sè l'aspettativa di un impercettibile cambiamento nello scorrere lento e regolare delle mie giornate. Alla fine non importava cosa avrei trovato dentro, passiamo la vita ad ordinare certezze come fili di panni, come filari di pini, perchè il solo fatto di tendere quei fili ci rende più sopportabile l'incertezza dell'orizzonte. E non ci rendiamo conto che l'unica cosa che ci mantiene vivi, giovani, forti, sono i piccoli eventi quotidiani che ci fanno deragliare dal binario preciso in cui abbiamo incamminato la nostra esistenza. Ecco perchè mi piaceva cosi tanto ricevere lettere. Trovarle infilate nella buca mi dava l'impressione che non tutto dipendeva da me, che non tutto era già scritto e deciso. Questo mi ha fatto venire in mente quel piccolo pacco ocra che ora ho davanti agli occhi, senza nessuna fretta di aprire.

venerdì, luglio 25, 2008

Gastroturbamenti

Secondo le ultime statistiche sono dodici milioni gli italiani affetti da gastrite. Quali sono le cause? Se si esclude la recentissima scoperta del minuscolo e insidiosissimo batterio dell' Helicobacter pyilori (ormai presente nella maggior parte dei casi), il resto dei motivi possono essere in larga parte ricondotti allo.....stress. Leggo: "Lo stress può provocare un’eccessiva secrezione di acidi da parte dello stomaco, e quindi anch'esso rientra tra le cause che provocano la gastrite". Mi ci vedo, proprio qui, ai confini di una eccessiva secrezione di acidi, colpevole di una settimana piegata in due a guardare il mondo da sotto in su. Mai succeso prima, forse non è neanche un caso che la botta sia arrivata allo scadere dei fatidici trenta, gli anni, si sa, chiedono sempre il conto per poter passare...Ho avuto tempo per riflettere in quella infernale settimana, mentre la mente vagava alla disperata ricerca di quel punto esatto un pò più in su dell'ombelico, alla ricerca dell'origine del dolore. Dicono che utilizziamo soltanto una piccola percentuale del nostro cervello, io ho provato - senza successo - di svegliare il restante 90% nella speranza che ricordasse come si fa ad annullare il dolore, semplicemente annullando il pensiero del dolore. In fondo è ironico, siamo esseri intelligenti ma di fronte a condizioni di eccessivo stress è sempre il nostro corpo, quasi mai la mente, a imporre un cambio di marcia. O di direzione.
Viviamo circondati di sostanze immateriali che ci sembrano fondamentali - questioni di lavoro, rapporti tra persone, legami di dipendenza - e non siamo capaci di un atto tanto banale come controllare il nostro dolore. Che esseri stupidi che siamo in fondo, nel senso etimologico del termine ereditato dal latino: stupidus, derivazione di stupere (stupire). Presi dunque dallo stupore, attoniti, sbalorditi da questo nostro motore interiore che ci fa affliggere per le cose più banali del mondo: il lavoro, la famiglia, le preoccupazioni quotidiane. Cose fondamentali per il nostro benessere e che per questo dovremmo prendere più alla leggera. Per viverle bene, fino in fondo, sapendo ridere di noi stessi per la natura stessa della nostra caducità. Non possiamo controllare il nostro corpo, come possiamo pensare di influire anche solo minimamente sul corso dell'esistenza (soprattutto quando include l'esistenza degli altri)? Un lungo respiro, due pasticche chimicissime e la gastrite è scomparsa, sono di nuovo in forma. Di lei è rimasta però l'ombra che lasciano le cose incompiute: la mia purificazione interiore inizia proprio là dove l'avevo lasciata. Da domani sono in ferie e mi aspetta un lungo, solitario, viaggio in treno. Con Ben Harper nelle orecchie, che ieri sera all'arena di Villafranca di Verona mi ha di nuovo regalato il momento magico vissuto due anni fa - non sospetta neanche, lui, quanto sia stato importate. Non si possono vivere gli stessi istanti due volte, ma le suggestioni che lasciano sono come scie di ricordi perduti. Quando li ritrovi è come ritrovare una parte di te che pensavi ormai estinta. Invece non si perde mai niente, è sempre tutto lì, dentro di noi. Se non ci facciamo inquinare dall'eccesso di succhi gastrici prodotti dal nostro cervello, ci ricorderemo che in fondo possiamo cambiare il mondo, soltanto con l'aiuto delle nostre due mani.

lunedì, luglio 21, 2008

Dice il mio oroscopo....

"la fantasia, che vi porta lontano da voi, quasi fuori dal corpo, non è fuga malinconica dal mondo, ma stile personalissimo di attraversarlo."

Posso tranquillizzarmi, almeno per il mese di agosto.,..

giovedì, luglio 17, 2008

Pasta, pizza e...?

"Capitale sociale, ambiente, qualità della vita, senso della bellezza, storia. Tutto questo compone una miscela di fattori materiali e immateriali in grado di creare un modello di sviluppo specifico, con una dimensione di ricchezza che non si limita alle cifre puramente economiche" (Paolo Bricco, Più qualità nella crescita", Sole24Ore 17/06/2008)

Per Emerte Realacci, recensito da Paolo Bricco, la qualità è un valore che le statistiche internazionali sottovalutano e che invece costituirebbe quel plus che ci permetterebbe di conquistare nuove fette di mercato, a discapito delle più pessimistiche previsioni di una crescita allo 0,4% e statistiche mondiali che ci vogliono impietosamente sempre tra gli ultimi della classe. Ma in fondo, basterà mettere un marchio Made In Italy - nuovo di zecca, luccicante e innovativo - appiccicato sopra la solita "pasta piazza e mandolino", per vederci di colpo schizzare in alto nelle classifiche che tengono conto della qualità? Ho come l'impressione che del marchio abbiamo già abusato, forse ci vuole una cultura diversa anche nel saper fare... e che questo non possa prescindere dall'innovazione, prima di tutto innovando nel modo in cui ci vedono gli altri, fuori da questo caro, vecchio, sclerotico stivale. Del resto conta molto "come ci vedono gli altri", molto di più di come siamo realmente. In fondo è proprio questo che voleva dire Realacci ma, volendo banalizzare, le conclusioni a cui arriva sono per certi versi italianissime: certo abbiamo i nostri limiti (il Sud?) ma per la maggior parte delle cose sono loro ad aver sbagliato indicatori, per questo dalle statistiche risultiamo appiattiti...manca la dimensione qualitative della nostra bravura! Invece io credo che al di là del contenuto (...senso della bellezza, storia...) è la forma in cui viene presentato a fare la differenza, almeno in un mondo che vive di "breve periodo". E ainoi, nonostante il nostro didentro amalgami egregiamente le vicissitudini più o meno gloriose di grandi uomini, riusciamo sempre a presentarci all'esterno con un certo fragoroso baccano. Forse è quel nostro assiduo gesticolare che alla lunga ci frega, gli altri restano a guardarci a bocca aperta, ma non sai mai fino in fondo quanto riescano a capire....

mercoledì, luglio 16, 2008

Piccoli campioni d'Europa

Da Bruxelles arriva un importante riconoscimento del ruolo attivo delle banche di credito cooperativo nel favorire l'inclusione finanziaria in Europa, grazie alla solida relazione con i loro soci, clienti e comunità locali. Questa certezza è uno dei segnali più significativi emersi dal rapporto finale della Commissione Europea sulla “fornitura di servizi finanziari e prevenzione dell’esclusione finanziaria” presentato a maggio a Bruxelles. Nel rapporto le banche di credito cooperativo sono definite “organizzazioni commerciali con orientamento sociale”. In effetti, la struttura societaria delle banche di credito cooperativo definisce una mission orientata alla massimizzazione del valore per i propri soci, con numerosi esempi di iniziative attivate per contrastare l’esclusione sociale: dallo sviluppo di nuovi prodotti e servizi alla creazione di partnership per diffondere l’educazione finanziaria tra i soci. Inoltre, grazie all’appartenenza alla solida struttura a network decentralizzata, le banche di credito cooperativo riescono ad offrire servizi anche nelle aree più remote, permettendo una copertura bancaria estesa a tutti, anche al di fuori delle zone urbane. A livello Europeo le banche di credito cooperativo sono rappresentante dall’EACB (European Association of Co-operative banks). Fondata nel 1970, l’organizzazione promuove la cooperazione tra i soci e rappresenta il settore sia di fronte alle Istituzioni Comunitarie che presso la Banca Centrale Europea. Le banche di credito cooperativo a livello europeo rappresentano 47 milioni di soci, danno lavoro a 730.000 persone e hanno in media una quota di mercato del 20%.
La presa di coscienza della Commissione Europea è tanto più significativa se si considera che il modello della cooperazione di credito è stato a lungo assente dalla letteratura scientifica in materia: soltanto l'1% della ricerca economica in Europa è dedicata alle banche cooperative, nonostante rivestano un ruolo chiave nei sistemi bancari e finanziari europei.
Al proposito, la EACB ha recentemente creato un think thank europeo sul credito cooperativo, con sede a Bruxelles, che avrà lo scopo di raccogliere il materiale esistente sul tema e distribuirlo al più vasto pubblico. Nel medio periodo, l'obiettivo sarà anche quello di produrre nuove ricerche che vadano a colmare le lacune oggi esistenti e forniscano degli input rigorosi alle Istituzioni Europee e alle Organizzazioni Internazionali in sede di produzione normativa.

lunedì, luglio 14, 2008

Violazione dell'integrità, l'amore

Ho cercato a lungo una definizione consona, tra le pieghe dei pensieri altrui, le parole di qualche canzone illuminata, la penna audace di un temerario scrittore. E poi, rileggendo un po' stranita un po' nauseata le frasi sottolineate a matita nei libri della mia adolescenza, mi sono arresa all'idea che una definizione non esista se non nel momento storico in cui la vivi, una storia d'amore.
Poi l'altro giorno, nei miei ormai routinari passaggi Brescia-Milano e viceversa, mi sono imbattuta in una copia di un giornale già letto, abbandonata tra i sedili di un vuotissimo Eurostar. L'ho sfogliata lentamente, più per noia che per reale vivacità letteraria e mi sono imbattuta in qualcosa di illuminante, una di quelle cose che prima di averle incontrate non c'erano in te e quindi, in fondo, porti a casa qualcosa di nuovo.
Era Umberto Galimberti, che rispondeva al solito lettore avanguardista, che disilluso e civilizzato diceva di non credere più alla sostanza spirituale di "innamoramento, amore, matrimonio e le varie forme di consolidamento dei rapporti di coppia". E Galimberti, con poche righe audaci, sentite cosa gli risponde: " Una sorta di rottura da sé perché l'altro lo attraversi. Questo è l'amore. Non una ricerca di sé ma dell'altro, che sia in grado, naturalmente a nostro rischio, di spezzare la nostra autonomia, di alterare la nostra identità, squilibrandola nelle sue difese. L'altro infatti, se non passa vicino a me come noi passiamo vicino ai muri,mi altera. e senza questa alterazione che mi spezza, mi incrina, mi espone, come posso essere attraversato dall'altro, che è poi il solo che possa consentirmi di essere, oltre a me stesso, altro da me? L'amore non è la ricerca della propria segreta soggettività, che non si riesce a reperire nel vivere sociale. Amore è piuttosto l'espropriazione della soggettività...per questo amore non è una cosa tranquilla, non è delicatezza, confidenza, conforto. Amore non è comprensione, condivisione, gentilezza, rispetto, passione che tocca l'anima o che contamina i corpi. Amore non è silenzio, domanda, risposta, suggello di fede eterna, lacerazione di intenzioni un tempo congiunte, tradimento di promesse mancate, naufragio di sogni svelati. Amore è violazione dell'integrità degli individui. La sola cosa capace di aprirci all'altro."

lunedì, giugno 23, 2008

Un racconto detto da un idiota, la vita...

All'inizio sembra Dilsey - la governante nera dei Compson, sudisti, in un'America dove ha ancora senso la distinzione tra nord e sud - sembra lei il punto di riferimento di questa famiglia perduta, il filo spesso che tesse tutte le loro storie (dei figli, dei padri) cercando di tenerle unite. Sembra lei, la roccia che non crolla. L'unica che salvando se stessa salva la speranza che nella vita esista ancora un senso. Ma proprio alla fine Dilsey dimentica, sceglie di dimenticare, negando di riconoscere tra le pieghe di una fotografia sgualcita, lo sguardo bellissimo e dannato della sua Caddy. Solo in quel momento l'ultima trama che teneva unita la famiglia Compson si spezza, solo allora Caddy è perduta per sempre.
Mi sono chiesta, allora non c'è salvezza? Anche Faulkner - come il dannato Macbeth shakespeariano citato nel titolo - crede davvero che la vita sia un racconto di un idiota "pieno di urlo e furore, che non significa nulla"? E invece no, esiste un punto di equilibrio, il meno evidente, il meno salvifico: è Benji, l'idiota, il figlio sordomuto, vergogna e pentimento della madre ipocondriaca dei Compson. E' lui l'acqua che redime, lui con il suo ossessivo mugolio, lui che non ha coscienza di esistere eppure trova la felicità in piccolissime certezze: la fiamma del fuoco, lo stelo di un fiore, il campo venduto per Harvard e Quentin, tutto ciò che è rotondo, la ciabatta consunta che odora di Caddy. Lui che non vive eppure è il più vivo di tutti, l'unico in grado di sopravvivere alla perdizione perché non sa di essere, in quel suo tempo che è solo lunghissimo presente. Benji racchiude il dramma di una famiglia americana di inizio '900, che come tutte le famiglie ai margini di quel terribile 1929, perse molto più che benessere economico: la fine del sogno americano del "tutto possibile", l'incredulo stupore di un impensabile fallimento.
Quindi l'Uomo, in Faulkner, si salva o si perde? In fondo l'autore stesso uscirà dalla vita distrutto dall'alcool, in cura da uno psichiatra, in preda ad attacchi di amnesia. Il messaggio è ambiguo ma forse....L'Urlo e il Furore è un libro complesso, sinfonico più che narrato, nell'intreccio musicale di quei flussi di coscienza ripresi dall'amico Joyce. Un libro che parla prima di tutto del suo autore, un uomo che come tanti ha avuto in dono una capacità durissima: la dannazione di chiedersi sempre il perché delle cose e saper leggere nell'esistenza tutte le risposte - perché se non per questo finiscono tutti cosi, schiacciati da se stessi?.
Se Faulkner, che ha dedicato tutta la sua vita a ricercare il senso della vita, riesce ad affermare che "lo scrittore deve avere fede nel destino dell'umanità", deve aver trovato, nella sua ricerca, le giuste risposte. In fondo, della vita è proprio questo che conta: fino in fondo, averla vissuta.

giovedì, giugno 19, 2008

La vetta vista da qui

La salita del Denali parte da Talkeetna, cui si arriva in macchina da Anchorage. Qui sulle targhe delle auto c’e’ scritto: Alaska –The Last Frontier- ed e’ proprio questa l’impressione che si ha giunti a Talkeetna. I tre giorni che servono per arrivare al campo 3, ci fanno capire subito che tipo di esperienza abbiamo iniziato, che tipo di viaggio, anche mentale, ci troveremo ad affrontare per i prossimo 14 giorni. Tirare con gli sci una slitta pesantissima su sterminate distese di ghiaccio, per poi arrivare, dopo 4 o 5 ore, in prossimita’ della zona dove scavare una buca nella neve, per piantare la tenda protetta dal vento gelido della notte artica, e poi iniziare a sciogliere neve per procurarsi acqua da bere e per cucinare, ti fa capire subito quanto si e’ lontano dalle abitudini di casa, dove basta aprire un rubinetto per avere tutta l’acqua che si vuole, calda e fredda. I 4.400 m del campo 4, sono il punto in cui ci si ferma piu’ a lungo, tanto che ad un certo punto, questo luogo sembra trasformarsi nella nostra “casa”, soprattutto se, come nel nostro caso, il brutto tempo e la neve costringono a passare fermi in questo punto cinque giorni in attesa che il tempo migliori. Con il passare dei giorni si inizia a fare amicizia con le altre persone che, come noi, sono ferme qui in attesa di un miglioramento del tempo, persone che hanno condiviso con noi questa prima parte del percorso, e che condividono con noi il sogno di raggiungere la vetta. Ognuno segue la propria strada, la propria strategia di salita, ma per tutti l’incognita principale e’ il tempo, cosi’, quando ci si incontra nel campo, l’argomento di discussione è sempre lo stesso: quando migliorerà il tempo? C’e’ chi, in contatto satellitare con chissa’ chi, si fa mandare previsioni meteorologiche che immancabilmente vengono smentite, c’è chi si affida a strane conoscenze scientifiche acquisite sui libri, ma l’unica cosa certa e’ che in questo posto, prevedere il tempo che fara’ e’ impossibile. L’unico modo e’ alzarsi la mattina, uscire con la testa dalla tenda e sperare che se il tempo e’ bello rimanga tale, se invece e’ brutto migliori, permettendoti di fare quello per cui sei venuto fino a qui. Dopo 5 giorni di attesa, decidiamo che è venuto il nostro momento. I giorni a nostra disposizione stavano per finire, ma soprattutto lo stare fermi, l’impossibilità di agire e la vita entro le ridotte dimensioni di una tenda di 3 m X 2 m, stavano pesando piu’ che sul nostro fisico, sulla nostra mente. possiamo affrontare la lunga cresta di roccia e neve che porta al campo 5 (High Camp), posto proprio sotto la cima del Denali, a 5.300 m. Montata la tenda il tempo sembra migliorare, e progressivamente questo posto, da cupo e tetro come appare avvolto dalle nuvole, si rivela come una sorta di paradiso, quando le nuvole rimangono sotto di te a formare un tappeto soffice, e lo sguardo puo’ perdersi nell’orizzonte infinito che l’alta quota puo’ permetterti di ammirare. A questa altezza il respiro rimane sempre affannoso, ed ogni movimento deve essere lento e ragionato. Se provi anche solo un attimo a mantenere il ritmo frenetico che si ha a casa, la testa inizia a pulsare, riportandoti ad una lentezza che ti permette di contemplare la magnificenza di quanto ti sta attorno. Visto l’accenno di miglioramento del tempo, decidiamo che domani sara’ il nostro giorno per tentare di raggiungere la vetta, avremo solo quello a disposizione, e cercheremo di fare di tutto per vincere la nostra sfida. La notte al campo alto trascorre lenta, si dorme poco (un po’ per la quota ed un po’ perche’ a queste latitudini, in questo periodo, il sole non tramonta mai) e fa molto freddo, e quando decidiamo che e’ ora di fare colazione e poi partire, ci accorgiamo che l’interno della tenda e’ completamente rivestito di ghiaccio, come ghiaccio si e’ formato sulla parte esterna dei nostri sacchi a pelo. Usciti dalla tenda ci accorgiamo subito che la giornata non e’ delle migliori. Alcune nuvole si stanno addensando sulla cima, ed il vento inizia a rinforzare. quando sbuchiamo in prossimita’ del Denali Pass a 5.700 m, il vento e’ talmente forte che quasi non ci permette di rimanere in piedi, e si porta appresso anche un gelo che ti entra subito nelle ossa. Cerchiamo di procedere per vedere se la situazione accenna a migliorare, ma oltre al vento ed al freddo, dalle nuvole che progressivamente ci hanno circondato, inizia a nevicare. A questo punto basta uno sguardo tra di noi per prendere la decisione che non avremmo mai voluto prendere…: si torna indietro, il nostro tentativo di salire ai 6.194 m della vetta del Denali, si ferma a circa 5.700 m, ad un soffio dalla vetta. Mentre torniamo verso il campo alto, le condizioni peggiorano ulteriormente, la nevicata si fa piu’ intensa, e questo in parte ci rincuora sul fatto che la decisione presa sia stata qualla giusta. Questa volta ha vinto la Montagna, che si e’ presa anche la liberta’ di beffarci, dandoci, il giorno dopo la nostra partenza una giornata splendida di sole, senza vento ed ideale per salire sulla vetta, come poche se ne vedono da queste parti…...ma noi, ormai, stavamo gia scendendo, un po’ abbattuti, ma in fondo consapevoli di aver fatto una, per noi, grandissima esperienza, dove siamo usciti solo in parte sconfitti da una Montagna che si e’ rivelata essere al tempo stesso immensa e splendida, ma anche in certi casi terribile e temibile. Noi siamo in ogni caso orgogliosi di quanto abbiamo fatto, e se non possiamo certo consigliare questo tipo di viaggio ad altri, quello che possiamo proporre e’ di cercare dentro se stessi la propria “Last Frontier” come abbiamo fatto noi, e di impegnarsi per raggiungerla, per quanto possibile ed indipendentemente dalla componente avventurosa o estrema che questa richieda. Spesso è più vicino e raggiungibile di quanto immaginiamo.

Foto e testo: Ivan & Gigi - Denali National Park, maggio-giugno 2008 ©

martedì, maggio 27, 2008

Capitale giovane under 35

E' uscito il rapporto del Cerved sull' imprenditoria giovanile nell'industria. Non ho ben capito se si tratti di dati incoraggianti, ma una cosa pare tuttavia certa: nel sottobosco mediatico dei bamboccioni, raccomandati, sbandati e figli-di-papà emerge chiaro il segno di un'Italia under 35 che si vuole combattiva, pronta a lanciarsi - con più successo di quanto si pensi - nei mari gonfi dell'economia mondiale. Si sente molto - troppo - parlare di un PIL in frenata, di competizione cinese e smarrimento imprenditoriale. Ma di fatto poco o nulla si dice in Italia delle imprese create dai giovani. Eppure ci sono, sono in crescita costante, nel segno del made-in-Italy ma non solo: sono sempre di più i giovani imprenditori stranieri residenti nel nostro paese. Il Cerved in questo senso viene a colmare una lacuna, mostrando il lato buono del vecchio stivale. Quello che si rifiuta di pensare che un piccolo PIL equivalga solo ad enormi preoccupazioni. Quello che ci spinge ad abbassare lo sguardo, a guardare la realtà da vicino e convincerci che ovunque si lasci spazio a creatività e fiducia ci sono possibilità di crescita e futuro. Anche su barchette modeste, ma dall'alto potenziale di navigazione in alto mare. Lo dimostrano i dati, anche al Sud, dove nascono cronicamente poche imprese ma tra queste vi è un contributo dei giovani maggiore che nel resto d'Italia. E allora perché non accompagnarli questi giovani? Invece che con spintarelle e balzani sgravi fiscali basterebbero passetti semplici, quasi ovvi. Tipo maggiore accesso al credito, che permetta non solo un efficace start-up - sarebbe già molto...- ma anche un potenziamento del capitale quando arriva il momento di fare il salto, di dimensione e di qualità. Tipo l'offerta di strumenti effettivi che spingano ad investire nelle aziende più virtuose, non solo da parte delle banche (venture capital, business angels...già il fatto che siano in inglese disincentiva a partecipare?) . Sembra che le banche italiane in quanto a innovazione nel settore rimangano stitiche, ancora poco propense a credere nei giovani e nelle buone idee. Avessero avuto la stessa prudenza nell'avvicinarsi - e far avvicinare ...- ai fatidici strumenti di finanza creativa, pane quotidiano dei nostri giorni....ma questa è un'altra storia. O no?

Per approfondire: Cerved BI e Sole 24 Ore
Fonte immagine

venerdì, maggio 23, 2008

Il cuore sul Denali

In passato hanno compiuto imprese scalando varie vette in tutto il mondo: Imsa Tse (Nepal) - 6.189 m, Elibrus (Caucaso Russo) - 5.642 m, Licancabur (Cile/Bolivia) - 5.920 m, Aconcagua (Argentina) - 6.961 m, Kilimangiaro (Tanzania) - 5.895 m.
Quest'anno hanno scelto il Mount McKinley in Alaska, conosciuto anche come Monte Denali alto 6.194 m. Il McKinley è la montagna più alta di tutto il continente nordamericano e, vista la vicinanza con il Polo Nord, è anche uno di luoghi più freddi al mondo, spazzata da venti gelidi che portano la temperatura anche a 35 gradi sotto zero. La fase di acclimatamento prevede numerose salite e ridiscese ai campi alti che si trovano a 5.200 metri. Da lì partiranno, l'ultimo giorno, per la vetta. La discesa sarà affrontata con gli sci. Questo permetterà loro di ridurre i tempi del ritorno alla base della montagna. Tutta l'impresa verrà affrontata in totale autonomia senza l'aiuto di guide o portatori nel pieno rispetto dell'ambiente.
A qualcuno potrà venire in mente chi sono questi pazzi e chi glielo fa fare di passare tre settimane delle loro ferie in uno dei posti più impervi del mondo....io mi sono fatta l'idea che non ci vuole coraggio ma un'immensa passione e che quando guarderanno giù, dopo aver patito e faticato per raggiungere l'ennesimo tetto del mondo, il loro sguardo si poserà lontano e il loro Io per un lunghissimo minuto si sentirà una piccola parte del tutto. E saranno forti e vivi, come non mai.
Potrei invidiarli, ma non lo faccio, perchè quella sensazione che non ho vissuto mi accompagnerà per i prossimi venti giorni, quando anche il mio cuore sarà lassù, con Ivan, sulla cima del Denali.

martedì, maggio 13, 2008

Honduras: ogni tanto se ne sente parlare...

"Chissà come si può fare per accendere un po’ di luce sulla lotta della magistratura dell’Honduras, da 35 giorni in sciopero della fame contro la corruzione nel paese centroamericano. Un paese periferico, completamente fuori dall’interesse dei media, lottando contro un fenomeno considerato normale, ineluttabile, al quale è meglio adeguarsi, "ma tu non tieni famiglia?"
Più di un mese fa hanno cominciato quattro giovani magistrati nel Palazzo legislativo di Tegucigalpa. Oggi hanno l’appoggio di migliaia di persone. Hanno chiesto che il procuratore generale, Leónidas Rosa, e il suo vice, Omar Cerna, fossero rimossi dal loro incarico. Sono i vertici di un potere giudiziario tutt’altro che indipendente e profondamente compenetrato con gli altri poteri, quello legislativo, quello esecutivo e con l’immanente potere economico, quello dei soldi, quello reale che non ha nulla a che vedere con la democrazia. Quei quattro giovani lottavano da anni per capire come si potesse fare giustizia se i vertici della giustizia erano conniventi con il crimine. Finiti tutti i sistemi legali, sentendosi pressocché sconfitti, restava la lotta, ma quella testimoniale dello sciopero della fame, l’ultima risorsa di chi ha capito che nessuno, neanche l’opinione pubblica in quel momento, vuole ascoltare..." (Gennaro Carotenuto, Gli straordinari giovani giudici dell'Honduras) Continua su Giornalismo Partecipativo

Segnalato da: Francesco

giovedì, maggio 08, 2008

Durango: cinema western e revoluciòn

Durango, capitale dell’omonimo stato a nord della Federazione Messicana, è una cittá pulita ed efficiente, lastricata di grandi opere e ambiziosi progetti, che il governo locale ci ha mostrato con orgoglio ripercorrendo con suoni, sapori e suggestioni, il passato glorioso del cinema western e della revolución. Proprio qui, piú di cento anni fa, venne alla luce Doroteo Arango Arambula, un semplice peon, figlio di braccianti da generazioni a servizio dei padroni. Un uomo umile, un analfabeta, che pure ebbe l’intuizione di stringere nelle sue mani le sorti della storia nazionale.
Era il 1910 e dalla sierra di Durango, Doroteo abbandonava per sempre la vecchia pelle, per diventare Pancho Villa, uno dei padri della rivoluzione messicana. L’uomo che insieme ad Emiliano Zapata, fu temuto dai governi non per la sua stazza o per la sua veloce carabina, ma per ciò che rappresentava: i rancheros, i peones, tutti i diseredati del Messico che con lui tornavano a credere in una ribellione possibile. Molte altre lotte sono passate da allora, mentre il Messico si guadagnava poco a poco uno dei posti d’onore tra i moderni paesi emergenti. Con un ritmo di crescita costante, un tasso di inflazione contenuto, accordi commerciali privilegiati e le immense risorse che riceve dai suoi emigrati, il paese oggi può giocare un ruolo di primo piano sulla scena internazionale. Eppure non tutti i nodi sono stati risolti, permangono ancora contraddizioni, discriminazini, forti ingiustizie sociali. La ricchezza, la forza produttiva ed il potere, continuano ad essere questione di pochi, grandi, padroni e anche qui, in questa terra feconda di petrolio, fagioli e mais, la grande finanza passa al di sopra delle teste della maggior parte della popolazione. Certo, le PMI messicane oggi corrono sull’onda di una congiuntura economica favorevole, ma senza possibilitá di accesso ad un credito onesto e lungimirante, sanno di non poter guardare con fiducia al futuro. Resta in sottofondo una sfumatura di diffidenza, la sensazione che finora lo Stato é stato molto presente, paradossalmente troppo presente, accompagnando con sussidi e donazioni i produttori e le casse rurali, distribuendo con mano generosa gli effimeri frutti del petrolio nazionale. Cosa succederá quando tanta abbondanza avrá fine? I campesinos e i rappresentanti indigeni che abbiamo incontrato non sembrano avere una risposta, concentrano in un sentimento di precarietá e dipendenza le loro reticenze, i loro timori. Eppure, mi chiedo cosa abbia spinto Pancho Villa - un contadino, uno che in fondo era nato nessuno - a lanciarsi nell’impresa di cambiare secoli di stratificazione sociale. Lo hanno descritto come un rivoluzionario con una mentalità da rapinatore di banche, un uomo che non sapeva leggere ma fondò 50 scuole, un violento, un bandolero. Ma in fondo, prima di tutto, Pancho Villa è leggenda, il mito in carne ed ossa di una utopia realizzabile. Nonostante le distese lunari dell’altipiano della sua Durango fossero possenti, giganti, immense, deve aver pensato che anche per uno piccolo come lui ci fosse possibilitá di riscatto. E che per farlo non fosse necessario un esercito, onorificenze o ricchi capitali, ma potessero bastare volontá e coraggio. O il bisogno urgente ed autentico di spingersi oltre le proprie paure.

Foto: Durango, Messico - 3-11 maggio 2008 letiziajp ©

lunedì, aprile 28, 2008

Problemi generici, Soluzioni personalizzate...


Foto: Mercato, Santiago del Estero - Argentina 2008, letiziajp ©

mercoledì, aprile 23, 2008

Appuntamento a Trento

...dal 29 maggio al 2 giugno per la terza attesissima edizione del Festival dell'Economia. Leitmotiv di quest'anno "Mercato e Democrazia", declinato in molte salse, tutte decisamente commestibili anche per i non addetti ai lavori. Tutto il Programma cliccando qui.


Al lato, oltre alle numerose manifestazioni enogastronomicheculturalsociali, anche un concorso fotografico promosso da LaVoce.info, dal titolo Low Cost - organizzarsi una vita a basso costo. Direi che ognuno di noi può tirar fuori dal cassetto lo scatto giusto per partecipare...

martedì, aprile 22, 2008

Credito vuol dire fiducia?

"Presto dinero a bajos intereses. Pase Usted"
Ovvero, l'insegna pubblicitaria che più spesso mi è capitato di incontrare viaggiando in lungo e in largo per l'America Latina. Passate pure, offro prestiti a interessi bassissimi, seguite la freccia senza timore. E la freccia porta un po' dappertutto, dal garage di pezzi di seconda mano, al supermercato-farmacia, al tinello di casa di qualsiasi persona che una mattina si sveglia con l'ispirazione da bancario. Niente di formale insomma, ma che c'è di male quando nel nostro stesso paese formalità fa rima con elefantiaca burocrazia? Non ci scandalizziamo, la maggior parte delle volte la freccia l'abbiamo seguita con sincera curiosità. Il problema viene dopo, quando si inizia a discutere il significato (personalissimo) di cosa voglia dire "al più basso interesse".
Perché in America latina i tassi di interesse sui prestiti, siano essi applicati da istituti formali o da baracchine improvvisate, sono sempre altissimi, e non solo per i nostri schizzinosi standard occidentali. Bassi perché espressi in termini mensuali ma quando dei mesi si fa la dodicesima somma, l'interesse raggiunge e spesso supera il 100% del prestato. Nell'Italia contadina delle casse rurali, già cento anni fa questo tipo di pratiche le chiamavano "usura" (Ma in fondo pensando al credito al consumo, non serve andare tanto lontano...).
E allora spesso ci è capitato di ripercorrere la freccia al contrario, riportando in strada i buoni propositi e qualche arrabbiata riflessione. Riflessione sul fatto che la parola credito deriva dal latino credere (creditum) ossia "ciò che è stato affidato sulla fiducia". Fiducia. Data e riposta, a volte anche in assenza di garanzie reali, sulla base della conoscenza reciproca, del reciproco rispetto. Oggi però nel mondo sta succedendo qualcosa di bizzarro: la finanza internazionale prende il largo e nel trasporto dell'euforia generale inizia a credere nel denaro facile - la facilità banale dello speculare su ciò che non esiste. E quando il castello crolla, da tanto si passa al niente. E credito nell'era dei subprime diventa piuttosto sinonimo di rischio: da controllare, razionare, regolamentare.
Ecco che la regolamentazione internazionale in materia su questo si fa - giustamente? - rigorosa. Va bene per le grandi banche, ma il discorso di complica per quelle piccole, quelle legate al territorio e a della gente onesta, lavoratrice, che magari non ha garanzie reali e patrimonio da mettere in gioco - e quindi è considerata rischiosa, non finanziabile - ma è gente di cui dicono che ci si può fidare. Lo dimostrano i dati: il tasso di sofferenza delle istituzioni di credito popolare (microfinanziarie, casse rurali ecc..) in America Latina è in media del 2%. Basso. I poveri restituiscono. Ma il prestito deve essere onesto, deve avere un prezzo equo, non certo quello proposto dai signori del cartello esposto sopra. Tutti, ma davvero tutti, almeno una volta nella vita possiamo aver bisogno di un prestito, per realizzare i nostri progetti. Ma solo una piccola parte dei tutti, ancora oggi, ha accesso a un credito onesto. Il bisogno rimane, se un povero è scartato da una banca perché rischioso troverà qualcun altro disposto a finanziare, a qualunque prezzo. Mettiamo da parte i pregiudizi: oggi nel mondo l'accesso al credito è ancora un diritto disatteso, ancora un elemento di priorità. Anche da questo dipende uno sviluppo sostenibile. Non solo degli altri, sto parlando anche del nostro paese. Pensate tra qualche anno a che panorama, se di fianco a casa vostra iniziassero a spuntare insegne pubblicitarie cosi...

Foto: Puno, Perù, febbraio 2008 letiziajp ©

lunedì, aprile 07, 2008

venerdì, aprile 04, 2008

Un fiore per Moki


Si chiama anche "non ti scordar di me", ma mia nonna diceva che erano "gli occhi di Maria" e se cercavi di toccarli con troppo trasporto, la corolla blu volava via e si trasformava in tante piccole lacrime. Mia nonna mi diceva di non coglierli mai, di limitarmi a guardare, e allora tutti quei piccoli occhi sgranati si sarebbero tramutati in un unico grande sorriso.
Oggi lo regalo alla Moki, insieme al mio abbraccio.

mercoledì, aprile 02, 2008

Il bisogno di chiamarsi e basta

E' in questo silenzio dei circuiti che ti sto parlando. So bene che, quando finalmente le nostre voci riusciranno ad incontrarsi sul filo, ci diremo delle frasi generiche e monche; non è per dirti qualcosa che ti sto chiamando, nè perchè creda che tu abbia da dirmi qualcosa.
Ci telefoniamo perchè solo nel chiamarci a lunga distanza, in questo cercarci a tentoni attraverso cavi di rame sepolti, relais ingarbugliati, vorticare di spazzole di selettori intasati, in questo scandagliare il silenzio e attendere il ritorno di un' eco, si perpetua il primo richiamo della lontananza, il grido di quando la prima grande crepa della deriva dei continenti s'è aperta sotto i piedi d'una coppia di esseri umani e gli abissi dell'oceano si sono spalancati a separarli mentre l'uno su una riva e l'altra sull'altra trascinati precipitosamente lontano cercavano col loro grido di tendere un ponte sonoro che ancora li tenesse insieme e che si faceva sempre più flebile finchè il rombo delle onde non lo travolgeva senza speranza.
Da allora la distanza è l'ordito che regge la trama d'ogni storia d'amore come d'ogni rapporto tra viventi, la distanza che gli uccelli cercano di colmare lanciando nell'aria del mattino le arcate sottili dei loro gorgheggi, così come noi lanciando nelle nervature della terra sventagliate d'impulsi elettrici traducibili in comandi per i sistemi a relais: solo modo che resta agli esseri umani di sapere che si stanno chiamando per il bisogno di chiamarsi e basta.

Italo Calvino "Prima che tu dica pronto"

giovedì, marzo 27, 2008

Lago Titicaca e dintorni...

Mi chiedevo perchè fossi sparita per cosi tanto tempo - che silenzio! - dal mio spazio virtuale. Poi le pile di scartoffie sopra la mia scrivania mi hanno risucchiato nel torpore burocratico dei classici giorni d'ufficio. Mi sorprendo a pensare che ogni viaggio che faccio è pura energia, che viene inevitabilmente bruciata ad ogni mio ritorno, nel tentativo di assorbire lo shock culturale della me vagabonda alle prese con la me da scrivania...
Sono appena (due settimane ad essere sinceri) tornata da una nuova entusiasmante trasferta in America Latina, che finalmente mi ha portato ad esplorare posti mai visti, dall'atmosfera surreale e leggera, come quella che si respira al confine tra Bolivia e Perù, nelle acque fluide e l'aria rarefatta dei 4000 metri del lago più alto del mondo: il Titicaca.
Tra le isolette di giunchi galleggianti del mitico lago vivono ancora i discendenti di un mondo preincaico quasi dimenticato, che cercano di trovare un equilibrio - alquanto precario - tra le loro antichissime tradizioni e l'inarrestabile invasione dei turisti di turno. Il risultato è bizzarro, forse eccessivamente colorato, plasticato, inevitabilmente artificiale. Ma in fondo va bene cosi, la cultura si preserva anche nell'incontro con l'altro, soprattutto se questi altri sono turisti curiosi ma responsabili, consapevoli che il viaggio in un'altra terra - terra di altri - non andrebbe mai confuso con una gita allo zoo comunale.
La guida in barca ci ha raccontato che la storia dell’antico regno incaico tramanda la tradizione di un’organizzazione comunitaria vagamente familiare. A seconda dei livelli – statale, comunale e familiare – gli inca dividevano il popolo in MITA, MINKA, AYNI, forme di lavoro comunitario che portava la gente a mettere a disposizione la propria forza lavoro, a seconda dei casi per costruire ponti, palazzi lussuosi del sovrano o aiutare i vicini e i parenti nella raccolta stagionale del mais.
Erano gli albori dell’organizzazione cooperativa andina.
Dal 900 d.c. ad oggi il movimento cooperativo peruviano ne ha fatta di strada , affrontando sconfitte e offrendo risposte ai grandi problemi locali: esclusione economica, povertá, ingiustizia sociale. E' bello sentire di far parte anche di questo mondo...
Il trasferimento da Lima a Buenos Aires è stato veloce e umido, giusto il tempo di infilarmi nelle ultime pagine di in un libro da consigliare: Travesuras de la niňa mala, Mario Varga Llosa.

Foto: letiziajp ©

Lo spirito di Mondragon

All’inizio degli anni 50 nasceva a Mondragon (Arrasate in basco), nella regione basca, nel momento più oscuro della Spagna franchista, il seme di un’iniziativa cooperativa destinata a fare storia. Poco conosciuto in Italia - dove esistono rarissimi casi di pubblicazioni in materia – l’esperienza del Gruppo Cooperativo Mondragon affonda le sue radici in un contesto storico duro e difficile, caratterizzato da scontri latenti, precarietà sociale, fame e povertà. Paradossalmente, come tante volte è capitato agli impulsi cooperativi di tante parti del mondo, è proprio dalle difficoltà che scaturirà la forza per reagire, la voglia di unirsi attorno ad un centro comune, per allontanare la tristezza e la rassegnazione che la guerra civile aveva lasciato nelle anime di tanti giovani del tempo...

Continua su Popolis

lunedì, febbraio 11, 2008

Se potessi avere 1000 lire al...

Prendiamo due persone, una con dei soldi da parte, l'altra con un'idea da farsi finanziare. I libri di tecnica bancaria ci insegnano che tra quelle due persone c'è un elemento in più - la banca - che accorcia le distanze e permette all'eccedenza del primo di contribuire al bisogno del secondo, senza che i due arrivino mai a guardarsi in faccia. Finora l'istituzione bancaria, piccola o grande che sia, è stata la regina incontrastata dell'intermediazione finanziaria. Da qualche anno a questa parte però, alcune esperienze originali - nate sull'onda di una relazione inversa tra il successo di Internet e la fiducia cittadina nel sistema bancario - ne stanno sfidando la supremazia.
Si chiama social lending (prestito sociale) e dopo aver fatto furore in Inghilterra, Olanda e Stati Uniti è approdato anche in Italia, sulla scia profumata di un discreto successo. Il meccanismo è banalmente semplice e per certi versi già visto - una versione moderna dell'ancestrale baratto - ma la sfida sottesa è degna di analisi: proporsi come punto di incontro virtuale tra chi è disposto ad offrire un prestito e chi ha necessità di richiederlo, scavalcando a piè pari gli intermediari finanziari. Non è da poco scommettere sul fatto che la gente si fidi più di Internet che dello sportello di una banca, eppure il successo di società con simili intenti, come eBay, dimostrano che il sistema funziona, almeno per ora. Ne sono una prova esperienze come Zopa, Boober, Kiva - le prime due già in versione italiana, la terza banco di prova della microfinanza in versione www. Tecnicamente cosa vuol dire?
La forza di queste tre società sta nel mettere a disposizione una piattaforma per prestiti on-line peer-to-peer, ovvero prestiti personali tra privati dove gli iscritti possono offrire/richiedere direttamente denaro, evitando gran parte dei costi della comune attività di intermediazione. Le commissioni richieste dalle società sono molto più basse di quelle richieste dalle banche tradizionali (per Zopa è circa l'1% del prestato) e le condizioni offerte, sia a chi presta che chi riceve, molto più convenienti. Il social lending può essere usato sia per richiedere prestiti (che sono in genere classificabili come micro) che per investire il proprio denaro, con tassi di ritorno di tutto rispetto. La domanda succesiva, ce l'hanno tutti stampata in fronte: è affidabile? I rispettivi gestori dicono di si, e fanno in modo di essere coerenti. Per quanto riguarda i portali versione italiana - Zopa e Boober - sono entrambi iscritti all'Ufficio Italiano Cambi e soggetti a regolamentazione della Banca d'Italia. Inoltre l'ammissione dei richiedenti è abbastanza selettiva, applicando un calcolo di rating capace da ridurre al minimo il rischio finanziario. Iniziative interessanti che probabilmente stanno già conquistandosi un futuro. Non come alternativa unica al sistema bancario, ma come offerta specifica per un mercato di nicchia, composto da gente che per un motivo o per l'altro sente più suo l'approccio peer-to-peer rispetto alla finanza delle grandi dimensioni. Può darsi che sia effettivamente una delle alternative. Come è un'alternativa quella offerta dalle banche di comunità, le casse rurali, le banche cooperative, istituzioni in carne ed ossa che, non senza difficoltà e contraddizzioni, portano comunuque avanti una visione di finanza che guarda meno al profitto e più al benessere complessivo dei soci e dei territori di appartenenza, senza rinunciare ad un'intermediazione reale e concreta, che fa del rapporto diretto e della vicinanza con le persone, uno dei suoi punti di forza e di competitività.
Per vedere da vicino cosa vuol dire, venerdi 15 febbraio le banche di credito cooperativo europee saranno riunite in convention a Bruxelles, per fare il punto sulle prospettive future di questo modo alternativo di pensare il fare banca nel mondo.

Fonte foto: TheBusinessShrink