lunedì, ottobre 15, 2007

Il Danubio passa per dieci Paesi

In aeroporto ho provato il pizzicorio di quei film dove l'eroe vince la monotonia del quotidiano infilandosi nel primo aereo in partenza da NY. Solo che io non ero a NY ma in una banalissima Malpensa e il mio aereo non era proprio a caso, ma quasi. Destinazione Belgrado, classica decisione last minute e un week-end di quelli strani nel mezzo, dove la sensazione che mi rimane non è di tempo, di spazio ma piuttosto di suoni e sapori.

A Belgrado ci ho pensato un sacco di volte, perché la mia amica Vera vive là e per me e la Moki è stato per un po' uno di quei viaggi-miraggi, da tirar fuori nei momenti di asfissia sociolavorativa, come oasi ideale per ricaricare umanissime batterie. Poi abbiamo smesso di pensarci e allora si, siamo finalmente partite. Dai Balcani mi aspettavo i ritmi improbabili dei film di Kosturica e gli squarci crudi e tristi a cui mi aveva abituato la Slovenia di fine anni 90. Da Belgrado non mi aspettavo niente, se non l'immaginario distorto da tanti racconti e l'entusiasmo di chi c'era stato prima di me. Ho trovato gli stessi mercati di Tegucigalpa, con gli equilibri precari di frutta e verdura, ma con volti diversi dietro i banchi, più affilati, inspigoliti da quella lingua costantemente interrotta da consonanti impronunciabili. Tutto così umanamente diverso dai paesaggi a cui mi ha abituato l'America Latina!

Non so se mi è piaciuta Belgrado in , la città intendo, o piuttosto l'incredibile coincidenza di equilibri tra tutti noi, coinquilini improvvisati a casa di V. Ho tutti i sensi falsati da un week-end che mi è sembrato una lunga interminabile notte, fatta di chiacchierate fitte, ricordi intensi, sensazioni riscoperte come dopo una conversazione interrotta, tre o quattro anni fa.
Belgrado è grigia nei giorni d'inverno, di un freddo pungente e secco. La mia prima mezz'ora di camminata in Serbia mi ha messo addosso la stessa desolazione che provavo ogni volta che da Gorizia passavamo la frontiera per andare a Nova Goriza, per andare a vedere cosa voleva dire Europa dell'Est.
Poi si è aperto il cielo e si sono aperte le piazze su parchi verdi e fitti, passaggi più ampi in una lunga camminata fino al Danubio, il fiume evocativo dei libri di Magris e di qualche riminiscenza sbiadita dell'università.
Fa bene ogni tanto sentirsi smarriti, sperimentare su di se lo stordimento del migrante, analfabeta della lingua locale in balia della compassione degli autoctoni. Mi viene in mente una scena sul treno Bologna- Ancona. Un gruppo di slavi cercava di chiedere informazioni in un italiano sgrammaticato e la gente passava oltre accelerando, come fossero fatti d'aria, come se il solo fatto di non parlare italiano (o essere tutti indistintamente e comunque "albanesi"?) giustificasse l'espressione di fastidio e disapprovazione. Per fortuna i serbi sono un popolo accogliente, il tassista all'aeroporto mi ha perfino prestato il suo cellulare.

Belgrado è una città di giovani in fermento, che ha davanti a se l'epoca della ricostruzione, che vive un presente geografico e storico fatto di mille contraddizioni in movimento da cui si alimentano speranze, sogni, spazi vivi di futuro. Ho capito cosi poco in queste poche ore, certi viaggi lasciano in eredità solo l'urgente bisogno di approfondire. Dentro la mia idea di Belgrado ci ho messo un po' di tutto: i vicoli di Bruxelles con i tamvia traballanti, i mercati del Centro America, pezzi dei viali di Buenos Aires. Per fortuna Vera si è prodigata a raccontarci un po' di storia e la città alla fine nella mia mente ha ripreso il giusto posto in un continente frammentato, ancora profondamente diviso nelle sue battagliere etnie, dove tutti parlano la stessa lingua ma la chiamano in modo diverso per giustificare la finzione di non capirsi. La guerra alle spalle, cosi vicina anche a noi: dal mio lato di Adriatico qualcuno racconta di aver sentito le bombe cadere. E la questione sempre aperta dello status di un Kosovo che si vede solo indipendente, lascia scoperte tutte le contraddizioni di questo lembo d'Europa che risponde alle logiche delle zolle terrestri, in perenne stato di precario assestamento.

Insomma, lascio Belgrado con poche certezze, con il sapore buono della capacità innata che abbiamo di ricreare le atmosfere vivide dell'amicizia in ogni contesto, ad ogni incontro. E poi mi resta l'orgoglio un po' infantile di sentirmi speciale, perché quando vado a trovare i miei amici non attraverso mai la strada o un isolato, ma come minimo devo farmi un'ora di aereo o dieci di treno. Il privilegio indiscusso di sentirsi sempre dentro ad un viaggio, dove il cibo e gli usi locali sono sempre per forza di cose sapori da scoprire. Stavolta è toccato ai cevapcici annaffiati di rakia (letto "racchia"), mentre l'accesso ad Internet broadband ci permetteva di risolvere l'ennesimo dubbio atavico: quanti Stati attraversa il Danubio nel suo viaggio verso il mar nero?

Foto: Belgrado - Serbia, 12-15 ottobre 2007, letiziajp © (peccato la macchia un po' scadente rubata all'ufficio... la mia Nokia (...Panasonic!!!) nello stesso momento era sulla vetta del Kilimangiaro...tutta un'altra storia da raccontare)

2 commenti:

Moki ha detto...

Grande Le, riesci sempre a rendere cosi bene in parole pensieri e riflessioni comuni... e belle le foto! Almeno belgrado by day l'ho vista un po' tramite quelle ;)

Anonimo ha detto...

La tua Nokia (che poi e' una Panasonic) e' in buone mani e presto torna a mostrare tutto quello che ha passato....sono contento che vi siate divertita a Belgrado!!!
Ciao.
Uno Tipo l'Uomo Ragno