Mi guardo intorno a Rioja, città di selva e di frontiera, e quello che vedo è in gran parte povertà. Eppure, anche se cosi distante dai quartieri eleganti e torniti di Miraflores e San Isidro, lontano dai fasti della capitale, il paesaggio di Rioja conserva la dignità dei paesi umili, dove una vegetazione rigogliosa e florida, baciata da un sole che Lima non vede mai, rende discreta e pulita anche la povertà più estrema delle baracche di paglia e fango ai due lati della strada.
La cooperativa di credito al posto del bancomat ha una cassiera sorridente seduta dietro ad uno sportello troppo alto per il suo metro e cinquanta, che fino alle dieci di sera offre servizio di prelievo e versamento ad una fila ordinata e composta di gente arrivata dopo l'orario di chiusura ufficiale. Le strade secondarie sono di terra battuta, la guida che mi ha accompagnato nel parco di Tioyacu ha nove anni e di andare a scuola non ne vuole sapere, la gente del posto vive di agricoltura e il narcotraffico è una realtà silenziosa e strisciante che toglie il sonno ai potenti locali. L'aeroporto di Tarapoto è in continuo rifacimento e qualche nuvola bassa mi ha lasciato a piedi per due giorni. Ma tutto l'insieme ha la sua forza, il suo prorompente colore, la sua incontrastata dignità. Pian piano Lima deporrà la corona e la gente smetterà di migrare come un fiume lento verso la grande città, per scoprire che anche fuori dalla propria casa, tra la propria gente, anche li dove la terra è polvere e il cielo uno specchio infuocato, anche nei posti più dimenticati lo Stato sta promettendo di investire. Politiche e ridistribuzione delle risorse riporteranno al Perù all'antico splendore.
Nel frattempo la vita scorre vivace e festosa, nella spinta della semplicità ricca del popolo latinoamericano, sempre in grado di sorridere, di accogliere, di ospitare nelle braccia aperte della propria casa, dove cosi tante volte ho potuto assaggiare pezzetti di cultura e umanità che nessun libro potrà mai raccontare. Anche stavolta l'America latina mi ha lasciato perle della sua saggezza, sociale e culinaria: tra le usanze più antiche ricordo il Sebinacuy, parola quetchua che per gli antichi popoli indicava la pratica - molto diffusa - della convivenza prima del matrimonio, per avvicinare le giovani coppie ad una scelta consapevole del fatidico "per sempre". Mentre in cucina, si sa, le perle sono rare. Questa qui ve la lascio sulla fiducia, perché stavolta un atavico istinto ha prevalso sulla curiosità e non sono riuscita ad assaggiare. Dicono che siano buonissime, stesso sapore del mais tostato annaffiato di pisco fresco. Si chiamano Sicsapa e sono formiche, nere e grasse. La modernità sposata alla tradizione, nulla mai si perde realmente, l'America latina è un continente contraddittorio che vale sempre la pena di scoprire.
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